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Azzerare l’Irpef ai giovani? Un’idea sbagliata

L’ipotesi di azzerare o dimezzare l’Irpef per i giovani non sembra convincente perché avrebbe un effetto regressivo. Verrebbe redistribuita ricchezza, ma solo a chi ha già un lavoro e un reddito abbastanza alto da pagare una imposta superiore a zero.

Le proposte sull’Irpef dei giovani

Nel dibattito pubblico sulla riforma fiscale italiana sono emerse proposte di riduzione o azzeramento dell’Irpef per i giovani. È il caso per esempio della proposta presentata dal partito Azione (azzeramento Irpef per gli under 25, dimezzamento tra i 25 e i 30 anni), poi riproposta nel programma per le elezioni del Patto Repubblicano (la sigla sotto cui parteciperanno alle elezioni politiche Azione e +Europa), oppure di quella contenuta nella relazione del Parlamento sulla riforma fiscale (detrazione specifica per gli under 35).

Proposte del genere risultano nuove nel dibattito pubblico perché non si è mai ragionato seriamente di una Irpef modulata in base all’età. Si inseriscono però all’interno di un filone che nuovo non è, quello del taglio del cuneo fiscale per i giovani. Il nuovo report del think-tank Tortuga “Tagliare le tasse ai giovani: una buona idea?” affronta in maniera completa, dati alla mano, la questione. E dall’analisi emerge un primo risultato molto chiaro: azzerare l’Irpef ai giovani avrebbe un effetto regressivo.

L’effetto regressivo

Le nostre simulazioni su dati Istat (che colgono i cosiddetti effetti “del giorno dopo”, ovvero quelli derivanti da un semplice ridisegno del sistema fiscale senza però catturare il possibile conseguente cambio di comportamento degli individui) mostrano che l’azzeramento dell’Irpef per i giovani tra i 16 e i 25 anni avrebbe un costo complessivo di circa 2,7 miliardi di euro. L’abbattimento del 50 per cento dell’imposta pagata da chi ha tra i 25 e i 30 anni, invece, costerebbe 2,4 miliardi.

Quali sarebbero gli effetti redistributivi di una simile manovra? L’aumento del reddito disponibile (in questo caso consideriamo il reddito medio famigliare) sarebbe molto contenuto, per due motivi principali: i giovani sono relativamente pochi rispetto alle altre fasce d’età e, tra di loro, sono ancora meno quelli che lavorano e pagano l’Irpef.

L’aspetto più sorprendente delle simulazioni è però che le due riforme avrebbero un effetto regressivo, ovvero redistribuirebbero risorse a favore dei gruppi più ricchi della popolazione. Lo vediamo nelle tabelle 1 e 2, la prima relativa all’azzeramento 16-25 anni, la seconda al dimezzamento 25-30 anni. Per fare un esempio, considerando l’azzeramento per gli under 25, il reddito medio famigliare nel 20 per cento più povero aumenterebbe di circa 1 euro, mentre coloro che si trovano nel 20 per cento più ricco avrebbero un aumento di circa 18 euro. Discorso analogo vale per il dimezzamento dell’Irpef ai 25-30enni. Il punto fondamentale è che il beneficio risulta maggiore per i decili più elevati anche in termini percentuali oltre che assoluti.

Come si spiega

Il problema risiede nell’illusione ottica che i giovani siano “tutti uguali” e “tutti poveri”. Ma se si azzera l’Irpef, la si azzera solo a chi attualmente paga qualcosa. Tra i giovani, come nel resto della popolazione, a pagare oggi un’Irpef superiore a zero sono gli individui con redditi relativamente più elevati, dal momento che chi ha redditi più bassi paga una imposta pari a zero grazie al già esistente sistema di deduzioni e detrazioni rivolte ai meno abbienti.

Il grafico nella figura 1 è molto eloquente in proposito: mostra l’ammontare medio di Irpef pagata mensilmente dai giovani tra i 16 e i 30 anni, per ciascun ventile di reddito da lavoro. Per circa la metà degli under 30 che lavorano l’Irpef è pari a zero, e si tratta della metà più povera. Man mano che si diventa più ricchi l’Irpef pagata sale, e quindi sarebbe maggiore il beneficio del taglio d’imposta proposto, con un effetto regressivo. 

Forse non è una buona idea

Alla luce di questa analisi, l’idea di azzerare l’Irpef per gli under 25 e dimezzarla per i lavoratori tra i 25 e i 30 anni non sembra convincente. Vi sarebbe probabilmente un effetto di aumento dei salari, ma concentrato nelle fasce mediamente o più che mediamente abbienti della popolazione. Le simulazioni evidenziano addirittura un lieve aumento della disuguaglianza economica dopo l’introduzione di riforme di questo genere. Verrebbe sì redistribuita ricchezza ai giovani, ma solo a coloro che già sono all’interno del mercato del lavoro, che sono una minoranza e forse non la più fragile. Tra questi, poi, la redistribuzione sarebbe solo verso coloro che hanno un reddito abbastanza elevato da avere una imposta lorda oggi superiore a zero: di nuovo, un gruppo che non ci sentiamo di definire in termini relativi più svantaggiato.

In un contesto in cui le risorse sono scarse e ogni misura va valutata anche rispetto alle alternative (per esempio: perché non investire quei 5 miliardi in un altro provvedimento?), l’utilità di una simile riforma sembra assai dubbia. Anche dal punto di vista occupazionale è difficile immaginare che misure simili possano risultare efficaci nell’aumentare la partecipazione dei giovani al mercato del lavoro. Questo proprio perché gli effetti sono concentrati tra chi ha redditi più elevati, mentre chi oggi è fuori dal mercato del lavoro o è scoraggiato da un basso salario netto ricadrebbe con maggiore probabilità in quella fascia di reddito che non avrebbe vantaggi da un azzeramento o dimezzamento dell’Irpef.

Un’alternativa più valida potrebbe essere quella di investire in un taglio dei contributi pensionistici, con uno sgravio permanente e universale per i lavoratori under 30, come spieghiamo più nel dettaglio nel nostro report, consultabile a questo link. Se invece vogliamo rimanere all’interno delle proposte strettamente relative all’Irpef, si potrebbero prendere in considerazione due diverse strade: una imposta negativa (i giovani incapienti che non possono fruire di tutte le detrazioni a cui hanno diritto, ricevono comunque la quota spettante sotto forma di trasferimento) come prospettato qui su lavoce.info, oppure un in-work benefit (i giovani a basso reddito ricevono una integrazione al proprio reddito), come suggerito invece qui.

Ha collaborato all’articolo: Francesco Armillei– Assistente di ricerca presso la London School of Economics. È senior fellow del think tank Tortuga.

Questo articolo è uscito originariamente l’11 febraio 2022.

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  1. Interessante analisi e condivisibile conclusione. Questo dimostra che molto spesso, o quasi sempre, le forze politiche che presentano proposte in materia fiscale non eseguono preventivamente analisi economiche , ma le fondano su ragioni diverse, che attengono alla ricerca di un momentaneo consenso politico.
    Fabio Ghiselli
    http://www.taxpolighis.it

  2. Enrico Motta

    Condivido la critica alla illusione ottica che i giovani siano “tutti uguali” e “tutti poveri”. Purtroppo questa illusione si inserisce in un filone di pensiero di gran moda, che usa l’aggettivo “universale” quando c’è da distribuire qualcosa in modo indiscriminato. Si va dall’assegno unico per i figli (anche se questo è progressivo), alla proposta di Fabrizio Barca di dare una dote di 15.000 Euro a tutti i giovani che compiono 18 anni, sia di famiglia ricca che povera; e quest’ultima proposta viene da chi vorrebbe combattere le disuguaglianze (sic!).

  3. Questo è vero in equilibrio parziale, in cui nessuna impresa privilegia l’assunzione di under-30 in risposta al taglio dell’IRPEF (che è nominalmente in capo al lavoratore, ma nei fatti viene redistribuito tra lavoratore e impresa in base all’elasticità dell’offerta di lavoro). L’idea alla base di questi sussidi è proprio l’espansione dell’occupazione per i giovani, che in Italia sono penalizzati da un mercato del lavoro duale, quindi non è chiaro cosa ci dica una simulazione senza margine di assunzioni/cessazioni aggiuntive.

  4. Stefano Santalucia

    Concordo con gli autori dell’articolo e gli altri commentatori.
    Negli ultimi anni si utilizza spesso la retorica “facciamolo per i giovani” dimenticando che ci sono giovani “fortunati” per nascita che possono studiare nelle migliori università, master all’estero, entrare ad un buono stipendio (magari detassato perché impatriati) ed altri meno “fortunati” per nascita che studiano e lavorano in Italia con redditi di entrata medio bassi ed un futuro già segnato. Purtroppo la divisione della società italiana in caste (modello India) è un fenomeno abbastanza sviluppato negli ultimi 20 anni e proposte come queste non fanno altro che accentuare il fenomeno.
    E tralascio le situazioni in cui si utilizzano i giovani non per richiedere l’estensione anche a loro di diritti che non hanno rispetto alle precedenti generazioni, bensì per chiedere l’eliminazione dei diritti degli “anziani” (poveri ovviamente)” per un principio di “mal comune mezzo gaudio” che sta uccidendo la classe media del nostro Paese.

  5. Henri Schmit

    Sono d’accordo. Queste idee “sbagliate” nascono perché nessuno sembra aver il coraggio, le capacità intellettuali e tecniche e la volontà politica di pensare una riforma strutturale della fiscalità. Come fare? Guardando gli altri paesi Ue e seguendo con coerenza dei principi condivisi (maggioranza ampia, costanza nel tempo). Se manca una comprensione profonda e un consenso ampio, si partoriscono sempre solo topi e mostriciattoli, a volte demagogicamente efficaci.

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