Sul contrasto all’evasione fiscale, il “governo del cambiamento” ha scelto una linea di continuità con le politiche precedenti. In alcuni casi è una decisione positiva, ma in altri no. Perché così non si affrontano i nodi che oggi limitano l’efficienza dell’amministrazione.
Nessun cambiamento dal governo gialloverde
Se si guarda a quanto il contratto di governo proponeva un anno fa in tema di evasione fiscale, si ha la netta impressione che in buona parte non sia stato (ancora?) realizzato e che, invece del cambiamento, sia stata scelta una linea di continuità con le politiche precedenti.
Lo spesometro non è stato abolito, ma sostituito con la fatturazione elettronica, innovazione in sé positiva sebbene non priva di problematiche applicative, e la cui entrata in vigore era già stata prevista dai governi precedenti. Neppure lo split payment, introdotto con la legge di stabilità per il 2015, è stato cancellato come annunciato. E anche in questo caso è decisamente meglio così. I proclami di “inversione dell’onere della prova” hanno portato a una modesta revisione del redditometro, mentre sugli studi di settore si è andati avanti esattamente come previsto già dal 2017, ovvero con l’introduzione degli Isa – indici sintetici di affidabilità.
La linea della continuità dovrebbe proseguire con la prossima introduzione della trasmissione elettronica dei corrispettivi (anche questa già prevista da tempo) ed è tutto sommato positiva, considerando quanto forte fosse la tentazione di giocare la partita del cambiamento su questi temi, strizzando l’occhio al sempre nutrito partito degli evasori.
I nodi che restano
Tuttavia, la continuità si è manifestata anche in direzioni molto meno positive. Il governo ha varato un condono assai ampio, ma troppo vicino ai precedenti e quindi con un effetto di gettito paradossalmente modesto. È stato finora confermato il congelamento dell’aumento delle aliquote dell’Iva previsto dalle clausole di salvaguardia, ma vi sono tentazioni di segno contrario che si basano, presumibilmente, su calcoli sbagliati proprio perché ignorano l’aumento dell’evasione che ne conseguirebbe. Infatti, se è vero che non esiste una relazione generalizzata tra aliquota ed evasione e quindi l’introduzione della flat tax non garantisce di recuperare base imponibile non dichiarata, è anche vero che, negli scorsi anni, per l’Italia si è osservato un incremento dell’evasione dell’Iva quando l’aliquota ordinaria è stata aumentata.
Ma soprattutto, anche qui in perfetta continuità con i precedenti, il governo non ha affrontato i nodi strutturali che oggi limitano l’efficienza dell’amministrazione finanziaria e non si è occupato del tema sempre più impellente del contrasto tra le esigenze di utilizzo massiccio dei dati e gli ostacoli posti dal Garante della privacy. È evidente che si tratta di un tema spinoso e molto impopolare, perché le accuse di voler instaurare il Grande Fratello fiscale sono sempre pronte. Ma la vicenda dell’anagrafe dei rapporti finanziari è molto istruttiva al riguardo: ampliata con i dati sulle movimentazioni con il decreto legge 201/2011 (il cosiddetto “salva Italia” del governo Monti), doveva rappresentare la svolta decisiva, ma è rimasta inutilizzata fino al 2017 a causa principalmente degli ostacoli frapposti proprio dall’interpretazione della normativa sulla privacy. Ora, otto anni dopo, siamo ancora alle sperimentazioni su dati di quattro-cinque anni fa.
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