L’App Lavoro è solo il primo passo di un percorso per la ricollocazione dei beneficiari del reddito di cittadinanza che operi su più fronti. E per contrastare il lavoro nero è più utile prevedere l’obbligo di attività formative e lavori di pubblica utilità.
Basta un’app per trovare lavoro?
Per collocare i beneficiari del reddito di cittadinanza, il presidente del Consiglio ha incaricato la ministra per l’Innovazione digitale, Paola Pisano, di istituire una task force che progetti e renda operativa entro sei mesi una struttura informatica per incrociare domanda e offerta di lavoro.
Quali accorgimenti sono necessari affinché lo strumento funzioni? Ma soprattutto, basterà una piattaforma per ricollocare i beneficiari?
Partiamo da una premessa fondamentale: la convinzione che i beneficiari del reddito di cittadinanza non trovino lavoro perché manca una “App” che favorisca incontro e domanda e offerta di lavoro è quantomeno errata. Chiunque (impresa o cittadino) intenda oggi cercare manodopera o lavoro può tranquillamente utilizzare i numerosi motori di ricerca del lavoro online; anche se non c’è un portale unico nazionale, la ricerca digitale del lavoro in Italia funziona perfettamente. Senza contare che esiste già una piattaforma di incontro domanda e offerta di lavoro a livello nazionale, alla quale vanno aggiunte le decine di piattaforme pubbliche regionali.
I beneficiari del reddito di cittadinanza non trovano lavoro perché sono un “target” particolarmente svantaggiato (oltre due terzi sono over 35, con un basso livello di istruzione, “demotivati” e disoccupati di lungo periodo) e perché la maggior parte di loro si trova nel Mezzogiorno, mentre le opportunità di lavoro sono in prevalenza dislocate al Nord Italia (quasi inesistente il mercato del Sud Italia), in particolare in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.
Figura 1
Fonte: elaborazioni da Data.wollybi.com
Se l’idea della task force fosse quella di unire le attuali piattaforme regionali, l’attività risulterebbe impervia e soprattutto inutile perché la stragrande maggioranza (anche quelle ben realizzate) sono utilizzate pochissimo (basti confrontare i loro numeri con quelli dei motori di ricerca del lavoro privati) e vedono ancora i centri per l’impiego come attore intermediario tra imprese e lavoratore.
Gestire oltre un milione di beneficiari del reddito di cittadinanza, a cui vanno sommati i titolari di altri ammortizzatori sociali e gli inoccupati, e – perché il sistema possa minimamente funzionare – disporre allo stesso tempo di almeno 15-30mila opportunità di lavoro caricate sul portale ogni settimana significa coordinare una piattaforma (in termini soprattutto di interazioni) in un modo tale che gli attuali servizi pubblici per l’impiego, compreso Anpal, non possono neppure immaginare.
I passaggi fondamentali
Perché il progetto possa funzionare sono necessari alcuni passaggi fondamentali.
1) Se lo scopo è quello di favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, gli investimenti più rilevanti vanno collocati nella comunicazione (definire una campagna nazionale di lancio del portale, una social media strategy e coinvolgere ambassador e influencer, per esempio) e non nello sviluppo del software (oggi si sviluppano piattaforme di incontro e domanda di lavoro innovative a cifre contenute), perché l’obiettivo principale deve essere quello di raggiungere una “massa critica” di utenti che utilizzi la piattaforma.
2) La piattaforma nazionale, per garantire un numero elevato di posti di lavoro caricati, deve diventare anch’essa un job aggregator, ovvero deve catturare le opportunità di lavoro presenti nella rete (opportunamente verificate), in modo da far confluire gli utenti sulla sua piattaforma.
3) Per gestire una “massa critica” è necessario che la piattaforma agisca anche (non esclusivamente) tramite meccanismi peer-to-peer tra gli utenti: è infatti impensabile che i centri per l’impiego siano in grado di gestire numeri così elevati. Da curare sarebbe soprattutto la gestione delle vacancy aziendali, che richiedono una presa in carico nella stessa giornata in cui sono inviate: il rischio è che l’investimento in comunicazione venga rovinato da pessime recensioni nella gestione della piattaforma. A questo scopo, si potrebbe utilizzare una parte consistente degli attuali navigator, dato che la piattaforma avrà bisogno di un’enorme attività di back-office, in particolare nell’interazione con i principali social media, attività già ampiamente diffusa nei servizi per l’impiego europei.
4) È fondamentale che all’interno delle ore di alternanza scuola-lavoro, gli studenti delle scuole superiori attivino il loro profilo sulla nuova piattaforma digitale: per le imprese disporre di curriculum di neo-diplomati potrebbe essere un ottimo incentivo a iscriversi.
5) Sempre nell’ottica di accrescere il numero di imprese iscritte è cruciale che l’accesso agli incentivi e sgravi contributivi avvenga proprio all’interno della nuova piattaforma.
La cosiddetta App Lavoro è dunque solo il primo passo all’interno di un percorso per la ricollocazione dei beneficiari del reddito di cittadinanza, che dovrebbe prevedere ingenti fondi per la mobilità occupazionale, la realizzazione di fiere del lavoro territoriali (Covid-19 permettendo) e integrazioni al reddito simili a quanto realizzato nel Regno Unito attraverso l’Universal Credit, dove l’ammortizzatore si adatta automaticamente a seconda dei guadagni ottenuti dal percettore, garantendo per un certo periodo un livello di reddito superiore a quello offerto dal sussidio di base, il quale si riavvia in caso di perdita del lavoro.
Difficile, se non quasi impossibile, è invece applicare la condizionalità: la versione tedesca o inglese di workfare non ha prodotto nessun effetto, se non quello di creare un esercito di esclusi dal sistema. Se l’obiettivo è contrastare il lavoro sommerso, lo si può facilmente arginare vincolando i percettori a partecipare ad attività formative o di accompagnamento al lavoro. A cui andrebbero aggiunti i lavori di pubblica utilità presso i comuni: sorprende – ed è un peccato – che dopo 18 mesi dall’introduzione del reddito di cittadinanza, appena 400 amministrazioni su 8 mila abbiano definito regolamenti per l’impiego dei beneficiari. Per molti di loro si tratterebbe di progetti di inserimento sociale dopo anni di inattività.
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