Una revisione delle aliquote Iva potrebbe permettere di introdurre misure che più che compensano il danno subito dai più poveri. Come la riduzione dell’Irpef o l’aumento dei trasferimenti per alcune categorie. Oppure per il taglio del cuneo fiscale.
Aliquota unica o tante aliquote?
Con la Nadef è iniziato il periodo in cui la legge di bilancio dell’anno successivo diventa il centro delle discussioni politiche. Quest’anno uno dei suoi ingredienti principali sarà la sterilizzazione della clausola di salvaguardia sull’Iva per il 2020. Alcuni vogliono evitare qualsiasi aumento, anche piccolo, delle aliquote Iva, altri vorrebbero “rimodularla” spostando alcuni beni da un’aliquota all’altra e usare il gettito per ridurre il cuneo fiscale; o anche solo per motivi di equità, a parità di gettito.
Può essere utile, per aiutare la discussione, fare un breve riassunto del ruolo che le imposte indirette, e in particolare l’Iva, dovrebbero avere nel sistema tributario. Consideriamo tre dimensioni: efficienza, equità ed effetti macroeconomici. Non è certo una sintesi completa, solo un accenno ad alcuni risultati. Usiamo una sola fonte: la Mirrlees Review (MR), un’ampia analisi dei sistemi tributari moderni che un gruppo di economisti inglesi e americani ha scritto nel 2011 e sempre attuale.
Cominciamo con le aliquote dell’Iva: meglio una sola o tante diverse? Chi ha studiato scienza delle finanze ha sicuramente incontrato la regola dell’elasticità inversa: per ragioni di efficienza è meglio applicare aliquote alte ai beni con domanda rigida, basse ai beni con domanda elastica. In questo modo si distorcono poco i comportamenti dei consumatori, cioè non li si spinge a cambiare molto le proprie decisioni rispetto a quelle che, senza le imposte, massimizzano il loro benessere. Dunque, aliquote diverse. Ma i beni a domanda rigida sono proprio quelli che occupano un posto importante nei consumi dei più poveri (per esempio cibo, energia), quindi l’equità richiederebbe il contrario di quanto prescrive l’efficienza: tassare meno i beni di prima necessità, anche se a domanda rigida. Per evitare l’impasse, secondo la MR, è meglio una sola aliquota, soprattutto perché gli obiettivi distributivi che si potrebbero raggiungere tassando poco i beni acquistati dai poveri possono essere ottenuti molto più efficacemente usando altri strumenti, in particolare le imposte dirette e i sussidi monetari.
A sua volta, tuttavia, la presenza di un’imposta sul reddito può introdurre una ragione a favore della diversità delle aliquote, perché un’Irpef molto progressiva può spingere gli individui più produttivi a ridurre il proprio sforzo lavorativo (o a evadere di più). Per correggere questo effetto distorsivo si potrebbe usare l’Iva per indurre i contribuenti molto produttivi a lavorare di più malgrado alte aliquote sul reddito, tassando molto i beni consumati quando non si lavora (alberghi, ristoranti, viaggi e poi?) e tassando poco o sussidiando beni e servizi consumati molto da chi lavora, come la cura dei bambini, il trasporto privato e pubblico, i pasti fuori casa, lavatrici e lavastoviglie. Ma, a parte il caso della cura dei bambini, ragionare in questo modo introdurrebbe troppa complessità nelle aliquote e difficoltà applicative. Per esempio, dovremmo colpire con alte aliquote il cibo consumato quando non si lavora, ma come distinguerlo da quello consumato nelle pause del lavoro, e con quali effetti distributivi? Bello in teoria, difficile in pratica. Meglio un’aliquota Iva unica e un sistema progressivo di imposta diretta più sussidi monetari.
L’uniformità evita anche i costi delle attività di lobby per richiedere trattamenti di favore di determinati beni, riduce i costi amministrativi e di adempimento e le opportunità di evasione.
Resta invece l’opportunità di aliquote differenziate per colpire i consumi con esternalità negative, come i combustibili, e anche quelli che hanno effetti negativi per lo stesso consumatore (internalità), come l’alcol, il tabacco e, perché no, le bevande gassate. Ma su molti di questi beni ci sono già accise elevate.
Gli effetti distributivi
Passiamo agli effetti distributivi. Secondo la Mirrlees Review, aumentare le aliquote Iva potrebbe essere meno regressivo di quanto sembri, per due ragioni. La prima è che l’Iva è molto regressiva sul reddito disponibile, perché la propensione al risparmio cresce con il reddito, ma il reddito non è per molti un buon indicatore del tenore di vita medio nel ciclo di vita. Lo sarebbe invece la spesa per consumi, sulla quale l’Iva è moderatamente progressiva (vedi figura 1). In altre parole, chi risparmia prima o poi spenderà e sarà tassato. L’altra ragione è che è vero che per esempio il cibo occupa una quota maggiore della spesa dei poveri rispetto ai ricchi, ma questi ultimi pagano un’Iva sul cibo in valore assoluto molto maggiore. Se aumenta l’aliquota sul cibo, si potrebbe usare l’importo pagato dai ricchi per più che compensare il danno subito dai poveri, riducendo per loro l’Irpef o aumentando i trasferimenti. Si parla da tempo di un assegno unico ai figli: un incremento dell’Iva tutto destinato a finanziarlo potrebbe avere un effetto netto progressivo.
Figura 1 – Incidenza dell’Iva su reddito lordo e su spesa (%)
Fonte: elaborazioni Prometeia su dati It-Silc e indagine Istat sui consumi delle famiglie. I dati microeconomici di reddito disponibile e consumi sono stati riportati ai valori di contabilità nazionale 2018. Reddito e spesa escludono i fitti imputati.
La figura 1 mostra che tutte le attuali aliquote Iva sono regressive sul reddito (per un’analisi distributiva degli effetti di un incremento delle aliquote Iva, si veda “Quanto costerebbe alle famiglie l’incremento delle aliquote IVA?”, Rapporto di Previsione – Luglio 2018, pag. 67, Prometeia Associazione per le Previsioni Econometriche). Tuttavia, con il gettito derivante da un incremento delle aliquote, si potrebbe realizzare una curva redistributiva Irpef più trasferimenti che più che compensa quella regressiva dell’Iva.
La questione del cuneo fiscale
E un aumento dell’Iva per finanziare la riduzione del cuneo fiscale? L’effetto distributivo dipende da come lo si taglia. Se vale la regola per cui l’imposta viene pagata dal lato più rigido del mercato, allora i contributi sociali incidono soprattutto sui dipendenti perché la loro offerta di lavoro è più rigida della domanda di lavoro delle imprese. Una riduzione del cuneo fiscale dovrebbe quindi (almeno in teoria) aumentare i salari. Se invece si agisce sull’Irpef, dipende da quali aliquote si riducono: per avere effetti distributivi progressivi si dovrebbe diminuirla anche sui redditi bassi, o aumentare la sua componente da imposta negativa oggi rappresentata dal bonus 80 euro.
La combinazione più Iva e meno cuneo potrebbe avere anche importanti effetti macro: aumento dei consumi, se la crescita dei salari medio bassi, ad alta propensione al consumo, più che compensa l’effetto delle maggiori aliquote Iva. E aumento della competitività delle imprese attraverso la “svalutazione fiscale”, con l’aumento dei prezzi delle importazioni, colpite dal rialzo dell’Iva, ma non delle esportazioni, sulle quali non si applica l’imposta sul valore aggiunto del paese di origine.
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