La legge di bilancio 2019 estende il regime dei minimi per le partite Iva. Le condizioni per rientrarvi così come disegnate dal governo Conte aprono la via a comportamenti strategici da parte dei contribuenti. E creano comunque incentivi all’evasione.
Il nuovo regime forfettario per le partite Iva
La legge di bilancio 2019 prevede l’estensione del limite del regime di tassazione forfettario per i soggetti a partita Iva, elevandolo a 65 mila euro di ricavo per tutti i settori e applicando al reddito imponibile un’aliquota del 15 per cento. Per i ricavi compresi fra 65 mila e 100 mila euro dal 2020 si stabilisce invece un’imposta sostitutiva del regime ordinario al 20 per cento. L’effetto delle due norme in termini di minore imposta pagata da parte dei lavoratori autonomi è già stato commentato su lavoce.info.
I limiti da rispettare per rientrare nel regime forfettario o sostitutivo sono relativi all’anno precedente quello a cui si riferisce il reddito dichiarato, come già prevedeva la norma in vigore dal 2015. Alcuni recenti commenti hanno sottolineato come potrebbero esserne avvantaggiati anche contribuenti molto ricchi. Il sistema può infatti indurre a comportamenti strategici, registrando i ricavi ad anni alterni.
Ipotizziamo che un contribuente abbia un flusso di ricavi costante e pari a 155 mila euro all’anno, con un costo annuo di 58.900 euro (che è l’equivalente del costo forfettario del settore del commercio, che prendiamo come esempio). Se nel 2017 il ricavo è superiore a 100 mila euro, al reddito del 2018, al netto dei contributi sociali obbligatori, che ipotizziamo essere pari al 25 per cento dei ricavi, si applica il regime ordinario Irpef. Il contribuente (tabella 1, caso b) nel 2018 pagherebbe 18.184. Lo stesso accadrebbe nel triennio successivo. Quindi il totale di imposta dal 2018 al 2021 sarebbe 72.734 euro.
Tabella 1
Tuttavia, sempre ipotizzando che nel 2017 i ricavi siano stati superiori a 100 mila euro, il contribuente potrebbe decidere (tabella 1, caso a) di essere eleggibile per il regime forfettario contabilizzando 60 mila euro di ricavi nel 2018, sui cui si applicherebbe il regime ordinario, e spostandone 95 mila nel 2019, in cui registrerebbe 250 mila euro di ricavi, ma sarebbe applicato il regime forfettario perché nel 2018 i ricavi sono stati inferiori a 65 mila euro. Nel 2020 ritornerebbe a contabilizzare ricavi per 60 mila e sposterebbe al 2021 quelli per 95 mila. Nel 2019 e nel 2021 si applicherebbe l’aliquota del 15 per cento al reddito calcolato in modo forfettario. Con l’aliquota unica del 15 per cento sul reddito ottenuto col regime forfettario, al netto dei contributi sociali, si arriva per il 2019 e il 2021 a un’imposta pari a 13.875. Nel 2018 e 2020, applicando le aliquote per scaglioni Irpef, si pagano 5.394 euro. La somma delle imposte dal 2018 al 2021 è ora 38.538 euro. La differenza è di circa 34 mila euro, ovvero un risparmio di imposta del 47 per cento, senza tener conto dei vantaggi dovuti alla diversa tempistica nel pagamento delle imposte. Il risultato si sarebbe verificato anche con il vecchio sistema, ma ne sarebbe stata interessata una platea di contribuenti molto più ristretta.
Le norme introdotte dal governo Conte avrebbero potuto correggere il meccanismo, visto che non vi è alcuna ragione apparente per cui il reddito di riferimento per applicare o meno il regime forfettario non debba essere quello dell’anno a cui la dichiarazione si riferisce. Tuttavia, anche in tal caso, si sarebbe sì eliminato l’incentivo alla fatturazione ad anni alterni, ma sarebbe rimasto quello a dichiarare ogni anno ricavi sotto la soglia dei 65 mila euro.
Nella scelta tra le due alternative vanno dunque soppesati i due effetti: con la fatturazione ad anni alterni emergerà probabilmente base imponibile, che però sarà tassata ad aliquota molto bassa. La questione riguarda in particolare tutti i contribuenti che adottano una contabilità per cassa, ovvero tutte quelle partite Iva corrispondenti ai liberi professionisti con contabilità semplificata, con ricavi che possono ragionevolmente oscillare tra i 60 mila e i 300 mila euro.
Una spinta all’evasione
Un secondo comportamento strategico per diminuire l’imposta da pagare è legato alla possibilità di arbitraggio tra la tassazione forfettaria al 15 per cento e quella sostitutiva al 20 per cento (tabella 2). Ipotizziamo che un contribuente nell’arco di due anni dal 2019 al 2020 registri ricavi per 130 mila euro, abbia costi fissi annui di 35 mila euro e che nel 2018 abbia ricavi inferiori a 65 mila euro.
Un primo caso è quello in cui nel 2019 il contribuente abbia ricavi per 60 mila euro e nel 2020 per 70 mila euro: nel 2019 si applica l’aliquota del 15 per cento, il reddito imponibile al netto dei contributi sociali è 22.200 euro, a cui corrisponde un’imposta di 3.330 euro. Nel 2020 si applica il regime forfettario in quanto nell’anno precedente i ricavi erano sotto la soglia dei 65 mila euro, quindi il reddito imponibile al netto dei contributi sociali è 25.900, applicando l’aliquota unica al 15 per cento si ottiene un debito di imposta di 3.885 euro. L’imposta totale dei due anni risulta 7.215.
Se invece ipotizziamo che il ricavo sia distribuito in modo differente, ovvero 70 mila euro nel 2019 e 60 mila nel 2020, nel 2020 si applica l’aliquota sostitutiva al 20 per cento al totale dei ricavi meno i costi e i contributi sociali, ottenendo 2 mila di imposta. Quindi, nel biennio 2019-2020, l’imposta complessiva è di 5.885: oltre il 18 per cento in meno rispetto alla situazione precedente. Anche in questo caso conviene aumentare un po’ i ricavi nel 2019 per pagare meno imposte.
Tabella 2
L’incentivo esisteva già con la precedente normativa del regime forfettario, solo che il guadagno di imposta era inferiore poiché l’alternativa era la tassazione ordinaria. Se applicassimo al nostro esempio il regime di tassazione ordinaria avremmo un’imposta totale di 6.185, ovvero un guadagno di imposta di circa il 14 per cento.
C’è poi un’altra questione. Il nuovo regime per coloro i quali hanno ricavi inferiori a 65 mila non prevede la fatturazione elettronica. Ciò implica minori costi rispetto alle altre imprese e, in parallelo, l’esclusione dall’applicazione dei nuovi indici sintetici di affidabilità (Isa) e dunque un controllo meno stringente da parte dell’Agenzia delle Entrate. Tutto ciò potrebbe indurre una maggiore tendenza a evadere.
I due esempi mostrano come introdurre un’aliquota unica solo per fasce ristrette di contribuenti possa essere fonte, oltre che di iniquità, anche di difformità nelle dichiarazioni del reddito. L’alternativa sarebbe quella di estendere il regime ad aliquota unica all’intera platea di contribuenti, ma questo, con aliquote inferiori o uguali al 20 per cento, genera seri problemi di gettito se si vuole continuare a finanziare l’attuale spesa pubblica.
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