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Welfare fiscale, scorciatoia per il consenso politico

Il meccanismo delle agevolazioni fiscali ha eroso la base imponibile del sistema fiscale italiano, rendendolo meno progressivo. Ma perché introdurre misure che fanno perdere 70 miliardi di entrate l’anno? Perché sono uno strumento di consenso politico.

Nell’ultimo biennio si è sviluppato un acceso dibattito sulla riforma fiscale cui lavoce.info ha dato ampia diffusione nel “Dossier riforma fiscale e assegno unico”.

I contributi evidenziano come il nostro sistema fiscale sia limitatamente progressivo rispetto alla distribuzione dei redditi e appaia addirittura regressivo per il 5 per cento più facoltoso dei contribuenti: i vari articoli sottolineano che tra i fattori che spiegano tale impatto distributivo vi è la profonda erosione della base imponibile intervenuta nel corso degli ultimi decenni. Un meccanismo attraverso il quale tutto ciò è avvenuto è rappresentato dal ricorso crescente ad agevolazioni fiscali, specialmente nel campo delle politiche di welfare (dalle detrazioni per “oneri personali” – come, ad esempio, gli interessi passivi relativi a mutui ipotecari o rette per nidi – alle deduzioni sui contributi previdenziali volontari).

Il welfare fiscale in Italia

In un recente studio da noi curato abbiamo stimato l’entità del fenomeno, abbiamo analizzato il ruolo delle agevolazioni in vari campi del welfare misurando l’impatto su redistribuzione e diseguaglianze nonché approfondito le peculiari dinamiche politiche che plasmano gli interventi nel settore. Quest’ultimo è un elemento decisivo perché la politics del welfare fiscale appare suscitare una irresistibile capacità di attrazione – tipica delle politiche micro-distributive – per i decisori politici, rispetto ad altri tipi di interventi di welfare pubblico (trasferimenti monetari o servizi).

Le nostre stime indicano che tra il 2018 e il 2020, lo stato italiano ha rinunciato a oltre 70 miliardi di euro di entrate annue per assicurare agevolazioni fiscali nel campo del welfare. La cifra rappresenta il 14 per cento delle entrate tributarie e il 15 per cento della spesa per protezione sociale all’anno. Nel decennio appena trascorso, inoltre, il welfare fiscale non ha nemmeno risentito delle politiche di austerità che hanno invece comportato forti tagli nella restante parte del sistema di welfare (dalla sanità ai servizi sociali all’istruzione).

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In alcuni casi gli strumenti del welfare fiscale possono ben combinare efficienza ed efficacia nell’utilizzo delle risorse pubbliche con l’equità intesa in senso sostantivo: ad esempio, l’incentivazione di comportamenti individuali volti a proteggersi da rischi sociali, una volta che lo stato abbia garantito in modo universale (se non universalistico) alcune tutele sociali; oppure il sostegno all’attività delle organizzazioni senza scopo di lucro.

Tuttavia, il ricorso generalizzato a strumenti di welfare fiscale in (parziale) sostituzione di interventi di welfare “sociale” pubblico comporta importanti criticità. Misure di questo tipo – in primo luogo le agevolazioni per mutui – hanno effetti fortemente regressivi. Inoltre, gli incentivi fiscali alla spesa privata per fondi sanitari integrativi e pensioni complementari non sembrano essere nemmeno efficienti rispetto all’utilizzo delle risorse pubbliche, favorendo in misura sproporzionata lavoratori e individui meno svantaggiati, che con grande probabilità sono meno esposti al rischio di ricevere una pensione inadeguata o di non avere le risorse per accedere alle cure. Complessivamente, l’effetto di tutte le agevolazioni relative al welfare fiscale è in Italia regressivo.

La ricostruzione storica del susseguirsi e del sommarsi di varie agevolazioni fiscali a partire dagli anni Settanta, nel periodo di istituzione dell’Irpef, porta a concludere che, su scala (per ora) più ridotta, il sistema tributario italiano abbia intrapreso la strada della “americanizzazione” di cui scriveva il politologo Sven Steinmo oltre trenta anni fa. Il sistema fiscale americano appare, infatti, formalmente molto progressivo, ma sostanzialmente caratterizzato da una pletora di agevolazioni fiscali, aumentate nel corso del tempo e spesso legate alla volontà di soddisfare le richieste di singoli micro-gruppi economico-sociali, che hanno finito con il trasformare profondamente “dall’interno” la struttura del sistema e depotenziandone sostanzialmente la progressività.

Lo scambio politico

Complessivamente, il ricorso a buona parte degli strumenti di welfare fiscale ha origine da dinamiche e processi politici e sociali, più che da considerazioni di efficienza economica. Il welfare fiscale tende a essere uno strumento formidabile nei processi di «scambio politico» specie tra partiti/governo e attori sociali.

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L’efficacia nei meccanismi di scambio politico è riconducibile ad alcuni peculiari attributi del welfare fiscale, due dei quali appaiono particolarmente importanti. Primo, l’opacità delle misure, intesa come difficoltà da parte di soggetti terzi, esterni agli accordi e agli «scambi» –primi fra tutti i cittadini –, di individuare sia i costi delle misure adottate, sia i luoghi e le modalità con cui vengono introdotte. Secondo, gli effetti delle misure: il welfare fiscale si presta infatti a essere un formidabile generatore di consenso politico in tutte quelle situazioni in cui risulta difficile per gli attori raggiungere un accordo rispetto a riforme e interventi da effettuare.

Perciò, quanto più diventa difficile riformare vari settori di policy (a causa di vincoli di bilancio, conflittualità fra attori e così via), tanto più crescono i vantaggi per i decisori politici, e per i gruppi di interesse beneficiari delle misure, di perseguire l’introduzione o l’espansione delle misure di welfare fiscale, in ottica microdistributiva, in modo tale da massimizzare il ritorno dello scambio fra attori e minimizzare la visibilità dei costi, che vengono scaricati sulla collettività dei contribuenti (e talvolta sul debito pubblico).

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  1. Savino

    Saper allocare e spendere le risorse pubbliche è la sfida del presente e del futuro. La propaganda edonistica e l’inseguimento dell’indignazione per argomenti futili sono state un fallimento totale.
    E’ adesso che le cose vanno male per davvero che si deve pensare se la felicità della gente è quota 100 o il RdC o gli 80 Euro o il bonus edilizio o il bonus casalinghe oppure no. Non c’è bisogno di tagliare la luce pubblica o altri servizi essenziali per fare questo, c’è bisogno di eliminare la spesa improduttiva, a partire dalla burocrazia, che fa stare bene pochi e soliti noti titolari di inutili incarichi, ad esempio delle 10.000 partecipate e dei loro cospicuamente remunerati cda si sono tutti dimenticati.

  2. paolo

    Il problema di fondo è che a fianco dei 70 mld non riscossi legalmente (come detrazioni fiscali), ce ne sono 100 di non riscossi illegalmente (come evasione).
    Le prime nient’altro sono che una (minimale) compensazione delle seconde, per i contribuenti onesti che le tasse le pagano e quindi accedono alle detrazioni, cui invece i contribuenti disonesti non hanno accesso.
    Almeno così era, prima della cessione del credito che ovviamente sta distruggendo il sistema fiscale perchè non vi è più premialità per i non evasori, follia a cui bisogna mettere fine al più presto, insieme all’altra follia della detrazione maggiore delle spese sostenute (110%).

    se si trascura l’enormità dell’evasione (cui le detrazioni sono la risposta primaria) l’analisi ovviamente porta a conclusioni fuorvianti.
    Una volta che si sarà messa la parola fine ed arrestata l’emorragia, sarebbe opportuno invece ragionare di trasferire almeno altri 100 mld di erogazioni pecuniarie dirette (in pratica tutti i contributi alle PMI e alle persone fisiche salvo i sussidi agli indigenti) in detrazioni fiscali di pari importo, in modo tale da assicurarsi che gli evasori non vi abbiano accesso alcuno.
    il risparmio per lo stato sarebbe ingente, l’equità sociale garantita (dal recupero dell’evasione) e ci si ritroverebbe con un “tesoro” da poter reinvestire in un ormai lunghissimo elenco di investimenti urgenti sempre rimandati per mancanza di risorse.

    • Qualewelfare

      Non possono esistere misure “compensative” dell’evasione fiscale, il disegno fiscale deve essere valutato senza includere la seconda, che va invece perseguita con gli strumenti di legge. Sarebbe come dire che a chi lavora viene pagato uno stipendio come compensazione rispetto ad altri che invece vivono rubando, non ha senso.

      • paolo

        La lotta all’evasione non si fa solo con misure repressive, ma anche rendendo l’evasione meno conveniente per gli evasori (ovvero favorendo i non evasori).
        Per es. le detrazioni fiscali riservate all’edilizia residenziale scoraggiano l’alternativa dei lavori in nero, che prima della loro introduzione era diffusissima e oggi invece lo è molto meno, perchè si crea l’interesse contrapposto (il cliente che deve detrarre non ha interesse al nero, perchè la detrazione è più favorevole, o comunque con esito comparabile, dello “sconto” che il nero garantirebbe).
        Se si perde di vista questo effetto basilare (che è lo scopo primario della gran parte delle detrazioni, intese come % del valore economico), è chiaro che il sistema delle detrazioni appare sbilanciato sui redditi più alti (bisogna pagare le tasse per poter detrarvi qualcosa, e dai dati ISTAT in italia il 45% dei contribuenti paga il 2% dell’irpef…).
        Ma sarebbe come dire che è inutile avere una serratura sulla porta di casa propria, visto che i ladri sono già perseguiti dalla polizia.

  3. Enzo

    Credo che una riflessione seria sul tema è doverosa e dobbiamo porci due domande di fondo, partendo dalla costituzione. Il nostro sistema tributario è realmente informato alla progressività? Ciascuno di noi contribuisce realmente alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva? Ragionevolmente possiamo ritenere che il dettato costituzionale è largamente frustrato dalle scelte di politica economica. L’ ultimo esempio distorsivo, solo in ordine di tempo, in campo edilizio è sul c. d. Bonus 110: la collettività si fa carico di ristrutturare le case ai “più ricchi”. Occorre ritornare urgentemente allo spirito costituzionale

  4. Stefano

    Il tema da comprendere è che 70 mld di euro corrisponde ad una quota del PIL del 3, 82%, in linea con gli altri Paesi OCSE ed inferiore a quanto spendono USA;,UK e Canada.
    Quello che gli economisti italiani dovrebbero fare è comprendere quale è stato l’impatto del PIL di tali misure non semplicemente misure il loro costo finanziario (per quello abbiamo i contabili non servono gli economisti).
    In Francia hanno il credito di imposta per R&S più generoso di Europa ( questo rende la Francia il paese ideale in Europa dove allocare le risorse) e l’elevato costo per l’erario francese è compensato dalle entrate dei redditi prodotti da tali centri.
    Se si fermassero solo ai costi quel credito sarebbe da eliminare, ma la classe dirigente francese , più lungimirante di quella nostrana, vede piuttosto ai ricavi di quelle misure.
    Servono anche fiscalisti per far capire agli economisti che alcune tax expenditures sono elementi obbligati perché altrimenti il nostro Paese risulterebbe meno attrattivo per investimenti esteri o perché gli accordi internazionali obbligano a tali agevolazioni.
    Certo una parte delle tax expenditures rispondono a finalità elettorali però rappresentano una quota minima rispetto al totale anche se va più d moda dire che sono solo misure clientelari.. sicuramente è più facile che ragionare sulla bontà delle singole misure..

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