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Regole europee, la soluzione 100 per cento non basta*

Una riforma delle regole fiscali europee è auspicabile, perché molto è cambiato dai tempi di Maastricht. Ma solo modificare il parametro del debito dal 60 al 100 per cento non è sufficiente. Il problema potrebbe ripresentarsi in futuro.

Le regole fiscali europee e il nuovo quadro macroeconomico

Ha suscitato qualche scalpore la proposta del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) di portare al 100 per cento la soglia di riferimento del debito pubblico su Pil per l’applicazione delle regole fiscali europee, ora fissato al 60 per cento nel Trattato di Maastricht. 

Per essere più precisi, si tratta solo dell’opinione di alcuni economisti che lavorano al Mes, accompagnata dall’usuale disclaimer (”senza che essa coinvolga necessariamente le istituzioni di riferimento”). Ma l’idea è stata successivamente ripresa dal direttore generale del Mes, il tedesco Klaus Regling, in un’intervista a Der Spiegel, e ha quindi acquisito una veste più ufficiale. L’interesse suscitato dall’intervista è legato, oltre che alla nazionalità, anche alla collocazione istituzionale del proponente, sebbene in realtà il Mes non c’entri molto con le regole fiscali, che sono invece una responsabilità dei paesi membri della Ue (per la loro formulazione) e della Commissione (per la loro attuazione). 

Una buona o di una cattiva idea?

Per rispondere, è utile partire da qualche informazione di base. Da parecchio tempo, c’è una diffusa insoddisfazione nei confronti delle attuali regole fiscali europee, per diversi motivi che vanno dalla loro presunta inefficacia, alla loro complessità e scarsa trasparenza e al loro effetto pro-ciclico sulla politica fiscale, particolarmente sugli investimenti (Efb, 2019). Già all’inizio del 2020, la Commissione aveva lanciato una consultazione pubblica per raccogliere proposte di modifica. Interrotta con la pandemia, la consultazione è stata rilanciata qualche settimana fa. Ma la pandemia ha anche radicalmente modificato la situazione di partenza, con il rapporto debito pubblico su Pil che è aumentato in media del 17 per cento tra i paesi europei, rendendo ancora più irrealistiche alcune delle attuali regole fiscali. In particolare, la cosiddetta “regola del debito”, sostenuta da sanzioni, che richiederebbe a ciascun paese con un debito superiore al 60 per cento del Pil di ridurlo di un ventesimo all’anno della differenza tra il debito attuale e il valore di riferimento (o target), cioè appunto il 60 per cento. Sarebbe del tutto improponibile per i diversi paesi europei (in sostanza, il club méditerranée: il Sud Europa più Francia e Belgio) che hanno debiti molto superiori al 100 per cento del Pil. 

Più in generale, è l’intero paradigma economico che si è modificato rispetto ai tempi di Maastricht. Almeno tra gli economisti, c’è il riconoscimento di un ruolo maggiore che la politica fiscale deve necessariamente svolgere di fronte a crisi di dimensione inusitata, come quelle che hanno colpito i paesi avanzati nell’ultimo decennio (dalla crisi finanziaria al Covid). A maggior ragione quando la politica monetaria, con tassi di interesse sostanzialmente a zero, ha pochi spazi residui di intervento. C’è anche il riconoscimento generalizzato che è necessario spendere molto di più per investimenti pubblici in Europa, in particolare per la transizione energetica e l’economia digitale. Soprattutto, c’è il fatto, comune a tutti i paesi avanzati, che se il debito è cresciuto ovunque, finanziarlo costa sempre meno. Questo perché i tassi di interesse si sono ridotti nettamente negli ultimi anni; in molti paesi europei e in particolare sulle scadenze brevi, sono diventati perfino negativi. 

Perché ci sia stata questa forte e prolungata caduta nei tassi di interessi è ancora fonte di dibattito; le politiche iper-espansive delle banche centrali negli ultimi anni hanno certamente contribuito, ma acquista sempre più peso l’ipotesi che dietro ci siano anche fenomeni strutturali di lungo periodo (per esempio, l’invecchiamento della popolazione) che hanno condotto a un eccesso globale di risparmio. 

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Il caso italiano, riportato nella figura 1, è particolarmente impressionante. Come si vede, nel 1992, per un debito attorno al 120 per cento del Pil, l’Italia pagava circa il 12 per cento del Pil l’anno per interessi; nel 2020, per un debito vicino al 160 per cento del Pil, solo il 3,4 per cento. Naturalmente, nel mezzo c’è stata anche l’adozione della moneta unica; e ciò è evidente nella figura dalla caduta a picco della spesa per interessi dal 1997-1998, quando divenne chiaro che l’Italia sarebbe stata ammessa subito all’unione monetaria. Ma la riduzione, tolti alcuni piccoli rimbalzi, è proseguita anche negli anni successivi e in qualche misura continuerà anche in futuro. La recente Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza, per esempio, stima che la spesa per interessi si ridurrà al 2,5 per cento nel 2024, via via che il vecchio debito sarà rinnovato ai recenti e più bassi tassi di interesse.

Le riforme possibili

Tornando alle regole fiscali europee, la necessità di una riforma è ulteriormente enfatizzata dal fatto che in questo momento e fino a tutto il 2022, il Patto di stabilità e crescita (Psc) è sospeso, ma rientrerà pienamente in funzione a partire dal 2023. Quale Psc sarà in vigore allora? Se non viene modificato per tener conto della nuova situazione post-pandemica, la Commissione si troverà tra l’incudine e il martello: se lo applica sul serio, come legalmente sarebbe obbligata a fare, rischia di generare una recessione in Europa, richiedendo correzioni eccessive e ingiustificate a molti paesi; se non lo fa, inventandosi qualche giustificazione per concludere che i paesi ad alto debito comunque soddisfano il Patto, rischia di eliminare ogni fiducia residua nel sistema delle regole. E non è affatto detto che sia un vantaggio per i paesi ad alto debito, a cominciare dal nostro. 

Un atteggiamento iper-flessibile sul piano fiscale della Commissione può infatti generare preoccupazioni nei mercati finanziari, che potrebbero rendere più difficile il rinnovo del nostro debito e innescare una nuova crescita dello spread. Tanto più perché per la ripresa economica e i rischi di inflazione, la Banca centrale europea dovrà comunque in futuro ridurre o eliminare la politica di acquisto dei titoli pubblici e forse anche aumentare i tassi di interesse. E se anche rimanessero mediamente bassi in Europa, quello che veramente conta per un paese come l’Italia è il “premio di rischio” richiesto dagli investitori per detenere i suoi titoli, a sua volta una funzione delle aspettative sulla solvibilità del debito. 

L’ideale sarebbe dunque una riforma generale del Psc che tenesse conto del nuovo quadro macroeconomico, imponendo solo una riduzione graduale ai paesi ad alto debito e comunque garantendo spazi per la spesa per investimenti. Sul piano tecnico, negli ultimi anni sono state presentate numerose proposte di riforma del Patto, da quelle più radicali a quelle solo migliorative dell’esistente. Queste ultime hanno anche una maggiore probabilità di essere accettate sul piano politico, viste le posizioni molto divergenti sul tema tra i paesi europei. E la proposta del Mes rientra proprio in questo campo. In realtà, contiene molto altro oltre al proposito dell’innalzamento del target al 100 per cento: c’è l’abbandono del bilancio strutturale (il famigerato output gap) e l’adozione di una “regola della spesa”, in linea con le proposte dell’European Fiscal Board e di tanti altri; c’è l’idea di un piano di riduzione graduale del debito che si dovrebbe riflettere in accordi sull’evoluzione dell’avanzo primario; c’è infine l’idea di uno strumento di stabilizzazione macro-economica comune per i paesi euro (un revolving fund) che, forse non a caso, fa più leva sui soldi del Mes che sul bilancio europeo, come invece fanno strumenti comuni recentemente introdotti per affrontare la pandemia, come il Sure e il NgEu

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Ma allora il 100 per cento? Su un piano puramente pratico, è ovvio che se l’attuale regola del debito deve essere mantenuta ma non è applicabile così com’è, si può intervenire solo su due fronti: o si aumenta il target di riferimento o si modifica la velocità di avvicinamento al target, per esempio cinquanta anni invece che venti. L’Efb propone quest’ultima soluzione; il Mes la prima. Il problema è essenzialmente di tipo giuridico, non economico: il 60 per cento è indicato nei Trattati e la velocità di avvicinamento invece solo nella legislazione secondaria, si tratta di capire cosa si potrebbe cambiare più facilmente e in tempi più brevi. 

Ma il 100 per cento avrebbe anche un senso economico? Sì, nello stesso modo in cui ce l’aveva il 60 per cento ai tempi di Maastricht. Con un vincolo al 3 per cento del Pil per il deficit di bilancio (che sia l’Efb sia il Mes propongono di mantenere), una crescita nominale al 5 per cento stabilizza il debito al 60 per cento; se ora la crescita nominale media per i paesi europei si è ridotta al 3 per cento, un deficit al 3 per cento stabilizza il debito appunto al 100 per cento. 

Tuttavia, il problema è che in realtà nessuno sa quale sia il livello di debito pubblico “ottimale”, diciamo uno che consenta di finanziare gli investimenti necessari, sostenere l’economia in caso di bisogno e svolgere nel frattempo altre utili funzioni (quali per esempio offrire un safe asset per i mercati finanziari) senza però creare rischi di solvibilità in futuro. Potrebbe essere il 100 per cento oggi, ma il 150 o il 75 per cento tra venti anni, a seconda di come cambiano le condizioni economiche, particolarmente per quanto riguarda la crescita futura e gli oneri di finanziamento. Se si ritiene comunque utile fornire dei semplici numeri per le regole fiscali, perché più facili da rispettare e da comunicare al pubblico e ai politici, allora sarebbe preferibile prevedere, fin dall’inizio, che quei numeri debbano essere rivisti a intervalli regolari, diciamo ogni 15 anni, per tener conto delle mutate condizioni economiche. Scrivere un nuovo numero in un Trattato che poi diventa di nuovo immodificabile, non rappresenta una soluzione.

* Le opinioni espresse sono personali e non riflettono necessariamente quelle dell’istituto di appartenenza.

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  1. Enrico D'Elia

    Il difetto dei criteri di Maastricht sta nel fatto che ignorano deliberatamente la retroazione del deficit sul PIL, che è il denominatore del rapporto col debito. A prescindere dalla soglia di riferimento per il rapporto tra debito e PIL, ciò porta necessariamente a politiche restrittive anche quando queste sono controproducenti, come riconosciuto ormai perfino da Alesina, Favero e Giavazzi (Rizzoli, 2019) che avevano introdotto l’ossimoro dell’austerità espansiva. Se non si corregge questo errore di fondo andremo incontro a crisi anche peggiori.

  2. Maurizio Cortesi

    Il documento del Mes mi sembra figlio del terrore tedesco per la mutualizzazione del debito oltre che della sudditanza a questa nuova religione americana della baseline growth. Invece una parziale mutualizzazione del debito rimanendo ben al di sotto del 60% dovrebbe servire proprio a rafforzare la cogenza dei vincoli di deficit/debito per i singoli paesi, poiché il vero scopo di tali vincoli dovrebbe essere quello di indurre un po’ tutti i paesi a fare riforme strutturali non a rimanere impiccati alle baseline decise dal Fondo monetario internazionale e dall’Ocse o dalla stessa Bce. Grazie per i link ai documenti europei e per averci edotto su questi per me inquietanti sviluppi.

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