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Oltre “Quota 100”: i limiti del contributivo

Termina il triennio di sperimentazione di “Quota 100”, ma resta comunque l’esigenza di reintrodurre una certa flessibilità nell’età di pensionamento. La via di uscita non consiste però nell’affidarsi al solo sistema contributivo.

La fine di Quota 100

Una delle questioni che il governo Draghi deve tentare di risolvere è la fine del triennio di sperimentazione della cosiddetta “Quota 100”. Trovare il bandolo della matassa è complicato: così come è nata, la misura rischia di cessare ancora in tandem con il reddito di cittadinanza, in una competizione contrapposta, per ragioni elettorali, alla ricerca delle necessarie fonti di finanziamento. Il mancato rinnovo del provvedimento è raccontato dai suoi sostenitori – i sindacati e sostanzialmente un solo partito politico – come un insopportabile ritorno alla odiata “legge Fornero”.

Ma i numeri forniti dall’Inps nel suo XXI rapporto annuale non sostengono la tesi di questo presunto dramma sociale. Anzi, dimostrano esattamente il contrario: nel 2020, i 73.396 aderenti a quota 100 rappresentano solo il 22 per cento degli aventi diritto. La percentuale potrebbe apparire non irrilevante, seppur inferiore alle stime del governo di allora, se non fosse che chi ha aderito a “Quota 100” rappresenta un irrilevante 5,2 per cento del totale dei lavoratori con un’età tra i 62 e i 67 anni (circa 1.300.000 soggetti).

Sulla iniquità distributiva dell’istituto introdotto dal governo giallo-verde, ancorché i costi effettivi siano stati nel triennio inferiori di circa due terzi rispetto a quelli preventivati, credo sia inutile spendere altre parole rispetto a quelle già utilizzate da Sandro Gronchi e da Carlo Mazzaferro.

Come si spiega allora la strenua battaglia su un beneficio che premia solo pochi “fortunati” lavoratori che possono vantare, a 62 anni di età, un’anzianità contributiva di almeno 38? Tra l’altro, i lavoratori non si sono dimostrati per niente attratti dall’ipotesi di anticipare il pensionamento che, a causa della perdita di contribuzione per gli anni di anticipo, implica una riduzione permanente dell’assegno tra il 10 e il 15 per cento. È un valore che, per un livello per niente generoso dei salari di operai e impiegati, fa una differenza determinante nel mantenere un reddito capace di consentire un livello di vita dignitoso.  

Si spiega con il fatto che “Quota 100” viene utilizzata in realtà come cavallo di Troia per tentare di ottenere una attenuazione di requisiti di accesso alla pensione, diventati pesantissimi a causa del loro collegamento automatico alla dinamica della speranza di vita sono. Tanto pesanti che il loro aumento è stato bloccato fino al 2025. Tuttavia, non si può negare che l’esigenza di reintrodurre un range di età flessibile di pensionamento, come originariamente previsto dalla legge Dini, sia fortemente sentita.

Aleggia però l’illusione che la reintroduzione della flessibilità in uscita con il metodo di calcolo contributivo garantisca l’invarianza della spesa intertemporale e che, quindi, sia a costo zero per il sistema economico. Spiace dover contraddire questa fallace illusione, ma non è sempre vero.

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Un esempio per spiegare il problema

Proviamo a fare un esempio molto semplice (per chi volesse approfondire consiglio la lettura di Hviding, Ketil and M. Mérette (1998), Macroeconomic Effects of Pension Reforms in The Context of Ageing Populations: Overlapping Generations Model Simulations for Seven OECD Countries 

Supponiamo che la nostra ipotetica società sia composta da 100 unità divise in decili ognuno di 10 unità tutte con la stessa età. Il primo di età zero: sono i neonati. Il secondo di 10 anni di età e così via. Supponiamo che i soggetti in età scolare siano i primi due. Quelli in età lavorativa dal 3 al 7. Quindi si lavora dai 20 fino ai 70 anni. E che, infine, i pensionati siano gli ultimi tre. Naturalmente, in questa società non mancano i rappresentanti dei lavoratori che lamentano come sia penoso obbligare le persone a lavorare fino a 70 anni. I sindacati adducono ragioni del tutto ragionevoli per ridurre l’età pensionabile: sicurezza sul lavoro, ricambio generazionale, equità sociale, giusto equilibrio tra tempi di lavoro e non lavoro rispetto alla speranza di vita (100 anni). Tutte ragioni sacrosante.

Idea: anticipiamo il pensionamento di 10 anni impiegando il metodo contributivo; in fondo il calcolo garantisce l’invarianza della spesa pensionistica. All’anticipo corrisponderà un’adeguata riduzione dell’importo spettante. Intanto, è già facile capire come non sia subito così. Alla spesa degli ultimi tre decili se ne aggiunge un quarto. Dovranno decorrere tre periodi affinché l’iniziale aumento di spesa si annulli e si ritorni sul livello precedente. Ma c’è un altro costo che il sistema deve sostenere e che è del tutto trascurato nel dibattito. Le coorti di popolazione in età di lavoro si riducono da 5 a 4. Prima erano 50 i lavoratori a sopportare gli oneri della popolazione non attiva: i 20 giovani e i 30 pensionati. Adesso la popolazione in età di lavoro si è ridotta a 40 e dovrà sostenere lo sforzo produttivo e gli oneri dello stato sociale delle 60 unità di popolazione che ora rientrano nella coorte non attiva. Dopo tre periodi, se la spesa pensionistica sarà tornata sui livelli di prima, il suo onere sarà comunque sostenuto da un numero inferiore di lavoratori.

Qualcuno obietterà: ma qui si trascura la produttività del lavoro. Se la produttività per unità di lavoro sarà rimasta costante, la spesa pensionistica finale non varierà, tornerà sui livelli di prima, ma l’onere sarà ripartito su un numero di lavoratori ridotto e il Pil del nostro ipotetico paese si sarà diminuito del 20 per cento. Se, invece, la produttività del lavoro dovesse aumentare fino a compensare la riduzione di lavoratori, finita la transizione, la spesa sarà addirittura superiore a quella di prima con un Pil rimasto invariato.

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Altra possibile obiezione: in Italia abbiamo, in questo momento, un consistente esercito industriale di riserva costituito da un elevato livello di disoccupazione e da una inaccettabile bassa partecipazione al lavoro delle donne. Anche in questo caso è il Rapporto Inps a darci una provvisoria risposta: l’evidenza empirica non dimostra che con le fuoriuscite dal lavoro per “Quota 100” ci sia stato un ricorso a nuove assunzioni di giovani disoccupati o di donne scoraggiate. Una ulteriore conferma che “uno non vale uno” e che per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro serve qualcosa di più del fabbisogno di manodopera, ad esempio: formazione e riqualificazione professionale, contrasto alle disuguaglianze salariali di genere e introduzione di un salario minimo. Temi sui quali c’è ancora molta strada da fare.

Si potrebbe obiettare ancora che qui si ipotizza che anticipino tutti. Nella realtà, con il contributivo, rispetto a un’età pensionabile rigida, qualcuno anticipa e qualcuno posticipa e il numero dei lavoratori rimane lo stesso. Sì, se gli incentivi e i disincentivi sono previsti correttamente. Paradossalmente, se i correttivi attuariali sono equi, cioè calcolati in modo neutrale, l’incentivo a posticipare non ci sarà perché nessun essere razionale posporrà il pensionamento. La spinta ad anticipare sarà necessariamente più forte di quella di coloro che vorranno rimanere al lavoro per ragioni extra economiche o perché non hanno prospettive di lavoro successive al pensionamento.  

La via di uscita per trovare una soluzione

Oggi l’età effettiva di pensionamento è arrivata a 64 anni di età. Se il baricentro di flessibilità, contenuto nel suo intervallo per le ragioni spiegate da Sandro Gronchi, sarà incentrato su questa età anagrafica e gli incentivi a posticipare saranno correttamente previsti, allora la riduzione del numero dei lavoratori sarà contenuto, se non nullo.

Di più non ci possiamo permettere, in un paese che ha un numero di lavoratori in rapporto alla popolazione tra i più bassi a livello europeo. In Italia il numero dei lavoratori occupati in rapporto alla popolazione è pari al 37,3 per cento contro il 54 per cento della Germania. E se ci si limita al genere femminile il rapporto scende al 31,3 per cento. Una società signorile di massa come amaramente l’ha definita il sociologo Luca Ricolfi.  

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Non è più tempo di sussidi alle fonti fossili

  1. Savino

    Non è più tempo di compromessi, di quote 102, di quote 104, soprattutto per lavori non eccessivamente pesanti sul piano fisico ( e nemmeno psichico direi) come il pubblico impiego, rimasto ulteriormente scoperto con quota 100. Occorre una struttura pensionistica sostenibile per 2-3 decenni. Gli italiani adulti non possono sognare a sacrificio della pelle delle giovani generazioni. Il sistema pensionistico può solo basarsi su sostenibilità dei conti e solidarietà tra generazioni.

    • Lorenzo

      Corretto.
      Chissà perché gli italiani hanno considerato e considerano i vari Andreotti, Berlusconi, Craxi, sindacati etc. come dei veri eroi per aver consentito pensioni baby e indebitamento crescente; Mentre i Dini, Amato, Prodi etc. sono da esecrare perché hanno messo un limite a tutto questo …

  2. Fernando Di Nicola

    Provo a contraddire l’esempio numerico che Antichi fa per sottovalutare l’equilibrio finanziario che un calcolo contributivo porta con sè. Scrive l’autore “Dovranno decorrere tre periodi affinché l’iniziale aumento di spesa si annulli e si ritorni sul livello precedente.” Ma se il calcolo è di tipo attuariale, alla maggiore spesa nei primi periodi corrisponde una minore spesa nei successivi, non il livello precedente. Anzi, poichè chi oggi attende l’uscita consentita va in pensione col sistema misto, più favorevole, un pensionamento attuariale comporta alla lunga una spesa minore della maggiore spesa di cassa iniziale. Non c’è bisogno di ricordare all’autore che il contributivo da riforma Dini fu congegnato perchè a regime poneva strutturalmente il regime in equilibrio.

    • massimo antichi

      No, non è così perché il numero dei pensionati sarà aumentato.

  3. Lorenzo

    Mi sembra si confonda il fatto che a regime nel sistema contributivo la pensione dovrebbe essere pagata con i propri contributi versati e rivalutati nel tempo e non con i contributi delle classi lavorative più giovani. Questo succede solo perchè c’è una pesante eredità del passato dove i contributi versati non erano “allocati per il futuro” ma spesi immediatamente per le pensioni di chi non aveva versato a sufficienza contributi e quindi attingeva ai contributi degli altri.

    • massimo antichi

      Gentile Lettore, il meccanismo di finanziamento del sistema pensionistico obbligatorio è ancora a “ripartizione”, cioè finanziato con la contribuzione dei lavoratori attivi. Non è a “capitalizzazione”, cioè finanziato con la contribuzione di ognuno, accantonata e investita sui mercati finanziari. Il passaggio al sistema di calcolo contributivo delle pensioni non ha comportato la modifica del sistema di finanziamento del sistema. Perché? Perché la scelta del sistema di finanziamento a “ripartizione” è praticamente “irriversible” in condizioni normali, per i costi che dovrebbero essere sopportati dai contribuenti nel passaggio dal primo al secondo. Invece, il sistema a “capitalizzazione” è la modalità di finanziamento, in Italia, della previdenza complementare.
      Ecco perché se la coperta dei pensionati si allunga, quella dei lavoratori che la finanziano inevitabilmente si accorcia.

      • Lorenzo

        Grazie per la cortese risposta. Direi che la distanza tra le nostre opinioni è ristretta al fatto se considerare “irreversibile” o meno il sistema a ripartizione. Sarebbe utile quantificare di quale cifre si stia parlando perchè farebbe bene alla opinione pubblica ed al dibattito sulla previdenza avere la stima di quanto sia stato “regalato” dal sistema previdenziale ai pensionati ( e che quindi i lavoratori attuali si strovano a dover ripagare) invece che continuare ad illudere le persone che le regole abbiano prodotto “pensioni da fame” e addirittura non garantito quanto maturato in base ai versamenti.

  4. Gianni

    Per ricondurre il sistema ad equità basterebbe eliminare lo scandalo della contribuzione figurativa, che falsa irrimediabilmente ogni obiettiva analisi quantitativa.

  5. Però a me sembra che mettere sul piatto della bilancia della sostenibilità delle pensioni il calo di PIL che dovrebbe derivare dal fatto che i pensionati lascino il lavoro sia almeno discutibile.
    A parte il fatto che allora con questa considerazione in pensione non si dovrebbe andare mai, se io lascio il lavoro non credo che la mia azienda permetterebbe che il suo fatturato cali corrispondentemente: o assumerebbe qualcuno per sostituirmi, o ottimizzerebbe i suoi processi per mantenere comunque le revenue stabili.
    Quindi, l’impatto del mio pensionamento (assumendo che dal punto di vista attuariale esso sia “neutro”) è tutto da verificare, e dipende da fattori esterni al mio rapporto con l’INPS.
    Semmai, c’è un segnale del fatto più generale che gli aumenti di produttività indotti dall’automazione di massa devono essere normati in modo da non abbattere le entrate previdenziali, con soluzioni coraggiose (es. contributi previdenziali a carico delle aziende proporzionali al valore aggiunto prodotto e non al lavoro dipendente).

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