Nella riunione del 22 settembre, il Board della Fed ha confermato quanto era stato anticipato dal suo Presidente Powell nel convegno agostano di Jackson Hole: salvo sorprese, la banca centrale americana avvierà presto una graduale riduzione del ritmo degli acquisti di titoli attualmente in corso, dando così attuazione alla sua exit strategy dal programma di quantitative easing avviato per reagire all’impatto della pandemia sull’economia americana.

In attesa del meeting di novembre, nel quale si prevede che la Fed prenda una decisione in questa direzione, riproponiamo l’articolo pubblicato in occasione del discorso di Powell a Jackson Hole, che chiarisce i passaggi previsti dalla strategia di uscita della Fed.

L’annuncio di Powell

Il presidente della banca centrale americana, Jerome Powell, nel suo intervento al convegno di Jackson Hole del 27 agosto, ha annunciato che la Fed è orientata ad avviare entro la fine di quest’anno l’uscita dal programma di acquisto su larga scala di attività finanziarie, il cosiddetto Quantitative easing, che aveva introdotto in reazione alla pandemia Covid-19. Si prefigura così la fine di un periodo di stimoli monetari eccezionali, con acquisti di attività finanziarie (titoli pubblici e asset-backed securities) per 120 miliardi al mese. I mercati finanziari hanno accolto positivamente la notizia, salutandola con rialzi delle quotazioni di borsa. Come mai? La ragione sta nella gradualità della strategia di uscita dal Qe annunciata, con molta trasparenza, dalla Fed.

Le fasi della exit strategy

L’uscita dal Qe avverrà in fasi successive. Prima ci sarà il tapering: la riduzione del ritmo al quale avvengono ogni mese gli acquisti netti di titoli (cioè al netto di quelli in scadenza). Anche quando la riduzione avrà portato gli acquisti netti a zero, il rinnovo dei titoli in portafoglio, che andranno via via a scadere, continuerà per un lungo periodo, assicurando condizioni finanziarie accomodanti (“accomodative financial conditions”). È il cosiddetto “roll-over”: quando un titolo scade, la Fed ne compra un altro analogo, in modo che la consistenza del portafoglio-titoli non si riduca. Questo assicura che le attuali condizioni di liquidità abbondante rimangano inalterate nel tempo.

L’eventuale aumento dei tassi di interesse avverrà in una fase successiva al tapering e a condizioni più rigorose (“more stringent test”). Per avviare il tapering, basta che l’organismo direttivo della banca centrale (il Federal Open Market Committee, Fomc) osservi sostanziali progressi verso il duplice obiettivo (dual mandate) della Fed: massima occupazione e stabilità dei prezzi. Per avviare un rialzo dei tassi occorrerà che le condizioni economiche siano coerenti con la massima occupazione e che l’inflazione abbia raggiunto, anzi superato per un certo periodo, l’obiettivo del 2 per cento (dando così attuazione alla strategia di average inflation targeting introdotta un anno fa). Per il momento le due condizioni non sono soddisfatte. Il mercato del lavoro ha fatto notevoli progressi di recente, ma nonostante ciò il numero di occupati è tuttora inferiore di sei milioni (di cui cinque nel settore dei servizi) rispetto al livello pre-pandemia (febbraio 2020). Il tasso di inflazione ha toccato livelli ben superiori al 2 per cento nei mesi estivi, ma la Fed ritiene che ciò sia da attribuire a fattori transitori e in parte statistici. La Fed può quindi rinviare a data da destinarsi il temuto aumento dei tassi di interesse di policy, cioè il target range per il tasso interbancario (federal funds rate), attualmente allo 0-0,25 per cento.

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Il decoupling tra moneta e tassi

Il disallineamento (decoupling) tra la fine delle operazioni di acquisto di titoli e l’aumento dei tassi di interesse sfrutta un principio ben noto nella teoria monetaria. L’estrema abbondanza di liquidità, creata nel tempo attraverso gli acquisti di titoli sul mercato, produce un eccesso di offerta sul mercato monetario che spinge i tassi di interesse al loro limite inferiore: lo zero lower bound (Zlb). L’eccesso di offerta rimane anche di fronte a un abbandono degli acquisti netti di titoli e, in prospettiva, a una riduzione della loro consistenza. La banca centrale può così avviare una stretta della quantità di moneta senza aumentare i tassi di interesse. Un tempo non era così: una stretta monetaria comportava necessariamente un aumento dei tassi di interesse. Il decoupling è una caratteristica del nuovo assetto (new normal) della politica monetaria, che usa strumenti chiamati “non convenzionali”, ma ormai entrati stabilmente nella “cassetta degli attrezzi” del banchiere centrale.

L’esperienza passata

La exit strategy dal Qe annunciata da Powell fa tesoro dell’esperienza accumulata dalla Fed. Nel gennaio del 2014 la Fed attuò un tapering, riducendo il ritmo degli acquisti di titoli previsti dal programma Qe3 (partito nel 2012) fino ad azzerarli nell’ottobre dello stesso anno. L’aumento dei tassi di interesse di policy venne avviato due anni più tardi, nel dicembre 2015, quando iniziarono a risollevarsi dallo Zlb. Il roll-over dei titoli in portafoglio continuò integralmente fino all’ottobre del 2017, quando la Fed dette inizio a una fase di riduzione dello stock di titoli detenuti (nota come “Quantitative Tightening”) peraltro solo parziale. La consistenza del portafoglio-titoli si ridusse del 15 per cento nell’arco di un paio di anni: da 4.500 miliardi di dollari (ottobre 2017) a 3.800 miliardi (agosto 2019). Da allora lo stock di titoli detenuti dalla Fed non si è più ridotto, anzi è aumentato leggermente, anche prima della pandemia: si veda la figura 1. Ciò consente alla Fed di mantenere le condizioni di abbondante liquidità previste dal new normal della politica monetaria.   

Lezioni per la Bce

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L’esperienza statunitense, passata e presente, fornisce indicazioni utili alla Banca centrale europea. Primo, una eventuale uscita dal programma di Qe introdotto per far fronte alla pandemia (il Pandemic Emergency Purchase Programme – Pepp) dovrà essere annunciato con chiarezza e attuato con la dovuta gradualità. Da questo punto di vista, sarebbe opportuno che la Bce si esprimesse con una voce sola anziché con dichiarazioni sparse dei membri del suo Consiglio direttivo. Secondo, la normalizzazione della politica monetaria non richiede di disfarsi del portafoglio-titoli accumulato con le operazioni di acquisto fatte con il Qe. Se ciò fosse reso chiaro nella politica di comunicazione della Bce (come lo è per la Fed) i timori, legati alla prospettiva di una futura vendita sul mercato dei titoli di stato detenuti dalla Bce, potrebbero essere fugati.  

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