L’Italia è uno dei pochi paesi a offrire ampie informazioni sull’utilizzo di derivati. Gli effetti delle operazioni sui conti pubblici sono stati relativamente contenuti. E i costi derivano per lo più dal mancato aumento dei tassi di interesse.

Governi, contratti derivati e trasparenza

La recente sentenza delle sezioni unite civili della Corte di cassazione ha riportato l’attenzione sulla liceità o meno dei contratti derivati stipulati in passato dai comuni italiani, che ormai da diversi anni non possono concluderne di nuovi. La sentenza non riguarda invece i contratti stipulati dal ministero dell’Economia e delle Finanze nell’attività di gestione del debito pubblico.

L’uso di strumenti derivati da parte dei governi è stato ampiamente dibattuto, soprattutto nei paesi con un debito pubblico elevato, durante la crisi dei debiti sovrani. In Grecia, l’emersione nel 2010 di un complesso sistema di operazioni in derivati finalizzato a consentire al paese il rispetto dei criteri per l’adozione dell’euro ha attirato l’attenzione di economisti e istituzioni europee. In Italia l’interesse dell’opinione pubblica si è concentrato principalmente sulla chiusura anticipata, tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, di alcuni contratti derivati con Morgan Stanley. Parte del clamore allora suscitato da tali operazioni è riconducibile anche alla sostanziale mancanza di informazioni sulle dimensioni, i rischi e le motivazioni sottostanti, ad esempio ancora nel 2014 il valore di mercato del portafoglio in derivati del Tesoro italiano non era noto.

Negli ultimi anni l’informazione statistica sull’utilizzo dei derivati da parte delle amministrazioni pubbliche in Italia è notevolmente migliorata: dei 23 paesi della Ue che dichiarano di fare ricorso a questi strumenti nella gestione del debito pubblico, solo per tre – Italia, Danimarca e Irlanda – le informazioni pubblicate possono ritenersi sostanzialmente in linea con le raccomandazioni del Fondo monetario internazionale. I progressi in termini di trasparenza sono stati inoltre accompagnati da importanti cambiamenti delle regole statistiche europee, che hanno limitato gli incentivi all’utilizzo dei derivati per finalità diverse da quelle di gestione dei rischi.

Le strategie del Tesoro italiano

Un nostro recente lavoro fornisce un quadro organico e aggiornato sull’utilizzo dei derivati nella gestione del debito pubblico italiano analizzando, anche rispetto agli altri paesi della Ue, le strategie perseguite e gli effetti sui conti pubblici.

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Le strategie del Tesoro italiano sono mutate nel corso del tempo. Negli anni Novanta, in un contesto di sostanziale assenza di regole statistiche a livello europeo, l’utilizzo dei derivati ha consentito di contenere nel breve periodo la spesa per interessi. Dalla seconda metà del decennio successivo, la strategia è stata invece orientata prevalentemente ad assicurarsi contro il rischio di possibili futuri rialzi dei tassi di interesse dell’area dell’euro. Oggi l’operatività in derivati del Tesoro è sostanzialmente limitata al monitoraggio e all’eventuale ristrutturazione dei contratti in essere.

Per avere un’idea dell’operatività in derivati si guarda di solito al valore nozionale dei contratti, ossia il valore rispetto al quale vengono calcolati i flussi di interesse generati da questi ultimi. Alla fine del 2019 quello complessivo del portafoglio in derivati del Tesoro, che può essere anche considerato una approssimazione dell’ammontare di debito pubblico “assicurato”, era pari a 99 miliardi. L’87 per cento del valore era relativo a interest rate swap, poco più del 10 per cento a cross-currency swap e circa il 2 per cento a swaptions. Rispetto al 2013, il valore nozionale si è ridotto di oltre il 40 per cento; il calo ha riguardato in particolare le swaptions, il cui valore nozionale è diminuito di quasi il 90 per cento, principalmente per effetto della cancellazione o dell’esercizio di quelle in scadenza.

Gli oneri per le finanze pubbliche derivanti dalle operazioni in derivati (in termini sia di esborsi registrati nel corso degli anni sia di pagamenti netti attesi in futuro) sono nel complesso contenuti rispetto alla dimensione del nostro debito pubblico, sebbene elevati nel confronto internazionale. Secondo le nostre stime, alla fine del 2018 l’equivalente di poco più di due punti percentuali del Pil (1,5 punti se si tiene conto anche della minore/maggiore spesa per interessi derivante dal minore/maggiore fabbisogno legato all’impiego dei derivati) di debito pubblico italiano erano riconducibili all’operatività in derivati (figura 1), contro un valore sostanzialmente nullo nella media dei paesi della Ue. Sempre alla fine del 2018 le passività in derivati, ad esclusione di quelle già incluse nel debito pubblico, ammontavano a poco più di un punto percentuale del Pil (figura 2), contro circa mezzo punto nella media europea.

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Figura 1 – Impatto delle operazioni in derivati sul debito pubblico italiano (in percentuale del Pil)

Figura 2 – Passività in derivati delle amministrazioni pubbliche (in percentuale del Pil)

Gli effetti sui conti pubblici sono il risultato di decisioni passate, prese in condizioni dei mercati finanziari profondamente diverse da quelle attuali. Il rischio contro cui l’Italia si era “assicurata” quindici anni fa, ossia un aumento dei tassi di interesse dell’area dell’euro, non si è verificato: i tassi si sono anzi fortemente ridotti dopo la crisi finanziaria, anche per effetto della politica monetaria accomodante.

I derivati non assicurano invece contro il rischio paese: come tutte le assicurazioni, infatti, non possono fornire copertura contro rischi, come il rialzo dello spread, influenzati da una delle controparti.

La crisi innescata dalla pandemia di Covid-19 determinerà probabilmente il permanere di tassi bassi per un lungo periodo e di conseguenza esborsi netti del Tesoro sul portafoglio in derivati. Solo quando i tassi di mercato torneranno ad aumentare, con la graduale normalizzazione delle condizioni monetarie e finanziarie, il valore di mercato delle passività in derivati e i relativi esborsi netti per il Tesoro diminuiranno: a parità di composizione del portafoglio in derivati, un aumento di un punto percentuale dei tassi di interesse dell’area dell’euro ridurrebbe infatti il valore di mercato delle passività in derivati di quasi il 30 per cento e i pagamenti attesi da parte del Tesoro di circa un quarto.

* Le opinioni espresse in questo articolo sono degli autori e non sono riconducibili all’istituzione di appartenenza.

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