Il sistema ospedaliero è messo a dura prova dal Covid-19. Sotto accusa sono i tagli ai posti letto degli ultimi anni, anche se quelli in terapia intensiva sono aumentati. Per il dopo-epidemia si profila l’opportunità di un piano Marshall della sanità.
Una dura prova per gli ospedali
Ha ragione il primario del reparto di malattie infettive del policlinico San Matteo di Pavia, Raffaele Bruno, quando ricorda a tutti che queste non sono le settimane delle parole e delle polemiche, ma del duro lavoro di chi cerca di arginare lo tsunami che ha colpito gli ospedali, in particolare quelli lombardi. E speriamo che rimangano solo loro a dover affrontare la violenza dell’ondata di contagi e che le misure restrittive diluiscano nel tempo le necessità di ospedalizzazione, così come sembra emergere dai dati degli ultimi giorni.
Troppo facile, però, in piena emergenza parlare di sfascio della sanità pubblica e di politiche che hanno imposto tagli insostenibili alla rete ospedaliera, proponendo (come ha fatto qualche ex candidato premier avvezzo al populismo) di riaprire addirittura i piccoli ospedali. Lo shock alla domanda di servizi ospedalieri causato dal Covid-19 è stato improvviso e inatteso rispetto ai tempi della programmazione sanitaria. Per fare un esempio, i ricoveri medi mensili in terapia intensiva in Lombardia sono stati circa 680 tra il 2013 e il 2017 (fonte: Opendata Lombardia), mentre oggi, solo per Covid-19, sono ricoverati in totale 1.350 pazienti. Forse è bene fermarsi un momento a riflettere e leggere i numeri che caratterizzano la capacità produttiva degli ospedali italiani.
I tagli ai posti letto
Il dato indiscutibile è che il numero di posti letto ospedalieri ogni mille abitanti in Italia è più basso rispetto a Francia e Germania e più vicino alla situazione del Regno Unito e della Spagna; lontano certamente dal Giappone e dalla Corea del Sud, due paesi in questi giorni alla ribalta delle cronache per le modalità con le quali hanno affrontato l’emergenza coronavirus. Quando saremo fuori dalla crisi sanitaria ci dovremo chiedere se abbiamo de-ospedalizzato troppo. Ma la riduzione del numero di posti letto e del numero di ospedali ha caratterizzato sostanzialmente tutti i sistemi sanitari pubblici dei paesi europei (anche a Madrid gli ospedali sono in una situazione estremamente difficile): va avanti da un bel po’ di tempo e ha portato con sé, a un certo punto, anche una correzione sulle unità di personale.
La domanda di fondo è perché si è de-ospedalizzato. La risposta è che da tempo i sistemi sanitari cercavano di attrezzarsi alla “transizione epidemiologica” verso malattie non trasmissibili (come il cancro, il diabete e alcune malattie degli apparati respiratorio e cardiocircolatorio), che tendono a cronicizzarsi e a presentarsi insieme. Per queste malattie si parla oggi di una vera e propria pandemia in atto a livello globale. Dal punto di vista della ristrutturazione dei sistemi sanitari, c’è un accordo generale nel considerare inappropriato un ricovero ospedaliero al di fuori della fase acuta della malattia. La cura, per questi pazienti, richiede quindi meno ospedali e più strutture territoriali. Se ne parla da decenni nel nostro paese e la quota del finanziamento complessivo della sanità destinata all’assistenza ospedaliera, in questi anni, si è ridotta per favorire il finanziamento dell’assistenza territoriale e della prevenzione. Il problema è che i cittadini hanno visto gli ospedali dimagrire, senza veder migliorare contemporaneamente come avrebbero dovuto (soprattutto in alcune realtà locali) i servizi sul territorio.
Come si è de-ospedalizzato è altrettanto importante. Il ruolo guida lo ha svolto il governo centrale, attraverso la fissazione di standard sempre più stringenti in termini di posti letto per abitanti. Alle regioni – come prevede la Costituzione – rimaneva solo la possibilità di decidere quali reparti o ospedali chiudere, perché i governi regionali conoscono i propri territori e la propria rete di offerta. Da chiudere o riconvertire erano (e sono ancora) i presidi che operavano con volumi di attività contenuti (i “piccoli ospedali”), come stabilito dal decreto 70/2015, che ha definito standard per disciplina basati su “bacini di utenza”. Anche in questo caso, però, non ci sono dubbi sulla politica da seguire: i piccoli presidi sono pericolosi, soprattutto per quanto riguarda le specialità chirurgiche. Il Programma nazionale esiti ha prodotto infatti abbondanti prove su come una riduzione dei volumi di attività abbia effetti negativi sulla mortalità per diverse tipologie di tumore, sugli esiti sfavorevoli legati al parto, sulle riammissioni per le artroplastiche. Certo, la chiusura dei piccoli presidi crea problemi di equità nell’accesso alle cure, che vanno risolti con soluzioni pensate per territori che non sono un’enorme città, ma sono fatti spesso in gran parte di aree “rurali”.
Ma in terapia intensiva i posti sono aumentati
Che si tratti di una ristrutturazione della rete (e non di sfascio) lo si vede anche guardando in modo più granulare i dati sulle variazioni dei posti letto. Nelle figure 1 e 2 abbiamo rappresentato i posti letto (pubblici e privati accreditati) per regione utilizzando i dati forniti dal ministero della Salute e distinguendo tra specialità mediche e specialità chirurgiche.
In entrambe le figure è possibile vedere la variazione tra il 2010 e il 2018: sostanzialmente tutte le regioni si collocano al di sotto della retta rossa (che indica una eguale dotazione nei due anni), con la riduzione media complessiva delle dotazioni di posti letto dei dipartimenti medici di poco inferiore rispetto a quella registrata nei dipartimenti chirurgici: 11,4 per cento contro 12,8 per cento. La figura 3 mostra invece la dotazione di posti letto in terapia intensiva sullo stesso periodo, la specialità messa in ginocchio dal Covid-19: questi posti sono aumentati negli ultimi anni. Forse è anche per questo che, per quanto sottoposto a uno “stress test” di dimensioni difficilmente immaginabili, il sistema ospedaliero per il momento continua a garantire cure a tutti.
Adesso dobbiamo contribuire a contenere la diffusione del virus con comportamenti responsabili. Solo quando l’epidemia sarà un ricordo, potremo discutere se il modello che vede gli ospedali lavorare sempre a piena capacità produttiva è funzionale per tutelare la salute in un mondo interconnesso come quello nel quale si è diffuso Sars-CoV-2 (e, prima di lui, Sars-CoV-1 nel 2002, o altri virus del genere Ebola). Avendo in mente due cose. Primo: in un mese siamo riusciti ad attivare circa 2.300 posti letto in terapia intensiva, che vuol dire aumentare la capacità produttiva della specialità del 50 per cento. Secondo: forse avremo la possibilità di sfruttare European Health Bonds per finanziare il cambiamento, titoli pubblici che – anche i più rigoristi – cominciano a proporre come possibile soluzione europea di fronte alla crisi sanitaria. Potrebbe essere il piano Marshall per la sanità europea in un mondo globale; non va sprecato.
Figura 1 – Posti letto nei dipartimenti medici (2010-2018)
Figura 2 – Posti letto nei dipartimenti chirurgici (2010-2018)
Figura 3 – Posti letto in terapia intensiva (2010-2018)
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