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Tre passi verso l’Europa sociale

Il fatto che l’Europa non abbia competenze in materia di lavoro e formazione ha contribuito a diminuirne la popolarità. Va perciò costruita la cornice di una vera e propria Unione sociale europea, da affiancare all’Unione monetaria. Ecco i primi tre passi.

Per un’Europa più vicina ai cittadini

L’Europa è conosciuta dal grande pubblico per il mercato comune di beni e servizi, per le regole su debito e deficit e dai più informati per l’unione bancaria, per le regole sugli aiuti di stato e per la politica della concorrenza. Ma in tempi in cui le preoccupazioni maggiori delle persone ruotano attorno al proprio futuro lavorativo, che appare sempre più incerto, il fatto che l’Europa non abbia competenze in materia di lavoro e formazione ha contribuito a diminuirne la popolarità. Oltre a prendere iniziative che rendano più efficiente il funzionamento dell’Unione Europea, bisogna anche porsi il problema di prenderne altre che possano rendere l’istituzione più popolare e riconoscibile presso gli elettori. Bisogna correggere i meccanismi decisionali sulle materie che hanno influenza su tutti gli stati (come l’immigrazione e la difesa), bisogna costruire un bilancio comune dei soli paesi dell’euro che possa costituire un embrione di politica fiscale, ma è necessario occuparsi anche di misure sociali più mirate, di minor impatto economico, ma più incisive per la vita dei cittadini europei (è quanto, con altri autori, proponiamo in un ebook apparso qui).

I tre passi da fare

L’Europa sociale, come primo passo, potrebbe essere una riorganizzazione creativa di strumenti già esistenti o in fase di elaborazione, rafforzandone le sinergie e collocandoli entro una cornice istituzionale riconoscibile e unitaria. Questa cornice sarebbe una vera e propria Unione sociale europea (Use), che si affiancherebbe all’Unione monetaria europea. Non si tratta di un welfare state federale, ma piuttosto di un’unione fra i welfare state nazionali, capace di sorreggerli nell’assicurare protezione ai propri cittadini e al tempo stesso di promuovere un certo grado di solidarietà paneuropea. Un esempio: per iniziare gradualmente si può prendere spunto da un programma europeo che già funziona, come l’Erasmus o come Garanzia giovani – che ha già avviato a un’esperienza di studio o di lavoro 600mila Neet (persone non impegnate nello studio, né nel lavoro né nella formazione) in tutta Italia. Garanzia giovani è una misura di welfare che deriva da una raccomandazione europea ed è pagata a valere su un fondo europeo, ma ogni paese la declina e la gestisce in base al proprio sistema di welfare.

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Sul piano concreto, dunque, il primo passo potrebbe consistere nell’introduzione di misure aggiuntive come una “garanzia sociale Ue”, modellata sulla garanzia giovani ed estesa in tre ambiti: la povertà educativa dei minori, la formazione, la conciliazione vita-lavoro. L’Italia ha un grado di dispersione scolastica altissimo, ha bisogno di sviluppare un sistema di formazione su base di conti individuali (non quella continua legata alle aziende – che esiste già – ma quella legata alla persona che cambia lavoro, che passa da lavoro autonomo a dipendente); e ha misure di conciliazione molto limitate, che condizionano la partecipazione al lavoro delle donne. Per motivi di consenso politico nazionale i paesi concordano Pon (programmi operativi nazionali) e Por (programmi operativi regionali) spalmati su tanti assi e tantissime misure. Ma se invece di disperdere i fondi europei in mille rivoli ci si concentrasse su fondi che finanziano programmi sociali riconoscibili, la reputazione dell’Europa presso i cittadini certamente migliorerebbe. Alcuni studi mostrano paradossalmente che la spesa dei fondi europei ha un effetto positivo sulla crescita regionale, tuttavia le regioni dove è concentrata sono anche quelle in cui i cittadini hanno un’opinione più negativa dell’Europa. La spesa sui fondi, infatti, spesso è dispersa e non riconoscibile come di provenienza europea.

Il vantaggio di una misura finanziata dall’Europa sarebbe anche quello di costringere la spesa su temi normalmente trascurati. In tutti i paesi europei la spesa pensionistica si mangia le altre spese sociali, ma negli ultimi anni è una tendenza particolarmente accentuata in Italia.

Il secondo passo di un’Unione sociale più stretta potrebbe essere l’avvio concreto di quel Piano sulle infrastrutture sociali per il lungo periodo elaborato dal gruppo di esperti presieduto da Romano Prodi e Christian Sautter. Ciò consentirebbe di colmare il divario di infrastrutture (nell’istruzione, nella formazione, nei servizi sociali e sanitari) che si è creato sulla scia della crisi. L’intervento diretto della Ue contrasterebbe la tendenza dei governi nazionali a concentrarsi sulle spese correnti, connessa alle dinamiche dei cicli elettorali.

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Un terzo e più ambizioso passo sarebbe l’adozione di uno schema Ue contro la disoccupazione ciclica, come prima forma concreta e riconoscibile di condivisione dei rischi sociali e dunque di trasferimenti, seppur temporanei, fra i paesi membri. Ci sono molte proposte al riguardo, prima fra tutte quella del nostro ex ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan.

Il secondo e il terzo passo sono certamente più ambiziosi del primo, se non altro perché richiedono un bilancio finanziato da nuove tasse o da spostamento di gettito dalle misure nazionali a quelle europee. Ma l’esperienza delle federazioni storiche insegna che la creazione di mercati unici e unioni monetarie deve essere integrata da alcuni “corollari sociali” con funzioni di stabilizzazione sistemica, a loro volta presupposto di adeguati livelli di legittimazione politica.

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  1. raffaele Principe

    Finora i programmi europei hanno interessato i ceti più forti ed istruiti: programa Erasmus, apertura dei mercati, libertà di movimento ecc. . Ai ceti più deboli invece sono state destinate le briciole e mediate dalle Regioni. E i risultati, in termini di simpatie versi l’Europa si vedono e si sentono.

  2. Aldo Zanchetta

    Troppi condizionali …

  3. Henri Schmit

    Trovo l’idea simpatica e interessante, ma piena di insidie. Si devono distinguere (come fa l’articolo a più riprese) la provvenienza dei fondi che finanziano i programmi sociali (“un certo grado di solidarietà paneuropea”). Fondi comuni per una “garanzia sociale europea” (per esempio un sussidio pagato dalle casse UE ai disoccupati “ciclici”) disincentiverebbero gli stati membri a rendere i sistemi nazionali più efficienti. Favorirebbero quindi politiche irresponsabili come quelle attuate dal governo in carica. La circostanza che l’opinione pubblica è meno favorevole all’UE nelle aree che più beneficano di fondi comuni mostra 1. che l’area in quanto depressa è stata ben scelta e 2. che le autorità nazionali e locali che si interpongono fras la fonte e la destinazione attribuiscono il merito a se stesse (il presidente di regione depressa fratello dell’eurodeputato e cugino del consulente tecnico non è un caso che bisogna inventare). Serve informazione seria, investimenti utili e lungimiranti e riforme profonde della struttura economica, finanziaria e giuridica di tutto il paese.

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