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Sul fisco tutto come prima

Sulle politiche fiscali la prima manovra del governo Conte rivela una sostanziale continuità con il passato. Non affronta i nodi strutturali del nostro sistema fiscale, mentre ignora del tutto i temi del futuro dei rapporti tra fisco e contribuente.

Continuità con il passato

A giudicare da quanto noto finora, sembra proprio che la prima manovra del governo Conte si caratterizzerà per una sostanziale continuità delle politiche di disegno (tax design, ovvero aliquote, scaglioni e così via) e di amministrazione (tax administration, ovvero applicazione e riscossione delle imposte) del fisco, che non affronterà i nodi strutturali del nostro sistema fiscale.

Le misure che dovrebbero rientrare nella manovra possono essere analizzate per comparti.

Nell’ambito della tassazione delle persone fisiche, è prevista l’estensione del regime forfetario introdotto nel 2014, a sua volta ispirato al regime dei minimi del 2007. Questo ampliamento viene a volte definito “flat tax”, ma dell’ambizioso – quanto discutibile – progetto dell’Istituto Bruno Leoni non ha nulla. Infatti, non è la struttura dell’Irpef a venire rivista – quantomeno per il 2019 – ma (sembra) solo uno dei requisiti di applicazione del regime previsto dall’articolo 1, commi da 54 a 89, della legge 190/2004 (ovvero la legge di stabilità per il 2015). Oggi possono accedere al regime gli imprenditori individuali, i lavoratori autonomi e professionisti che conseguono ricavi o compensi non superiori a un importo che varia, a seconda del settore, tra i 15 e i 40mila euro annui. Per tutti (o per alcuni?) questi settori la soglia massima dovrebbe essere portata a 65mila euro, mentre non dovrebbero intervenire cambiamenti sugli altri requisiti, ovvero il limite massimo alle spese per lavoro dipendente (5mila euro) e il costo storico dei beni strumentali (20mila euro). Il vantaggio principale per chi aderirà al regime è l’applicazione dell’imposta sostitutiva del 15 per cento sul reddito determinato forfetariamente applicando al fatturato un coefficiente di redditività. Inoltre, dovrebbero essere confermati l’esonero dall’applicazione della ritenuta d’acconto, dalla tenuta e registrazione delle scritture contabili e dagli studi di settore (e presumibilmente anche dagli indicatori di affidabilità).

Le criticità principali di questo regime sono il fatto che contribuisce all’ulteriore erosione della base imponibile dell’Irpef, ormai sempre più un’imposta solo sul reddito da lavoro dipendente, e al sottodimensionamento delle attività economiche.

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Per le società di capitali, dovrebbe essere abolito l’Ace (aiuto alla crescita economica), che consentiva una deduzione dal reddito imponibile correlata all’aumento di capitale investito, e l’Iri, che consentiva alle società di persone la tassazione al 24 per cento degli utili trattenuti, per introdurre (pare per tutte le società) una riduzione  di aliquota (al 15 per cento anch’essa, sembra) sugli utili reinvestiti nel capitale. Tuttavia, l’intervento sembra limitato a quella parte di utili impiegata per l’acquisto di beni strumentali e all’incremento del costo del lavoro dovuto a nuova occupazione; pare che questi maggiori costi risulteranno deducibili anche se finanziati a debito. Non è chiaro se la misura avrà carattere temporaneo o strutturale, ma ciò che è certo – e anche questa, purtroppo, non è una novità- è che le imprese si troveranno a affrontare l’ennesimo cambiamento di regole in corsa quando è noto che, specie per quelle che investono molto, la stabilità e la certezza del quadro regolativo è financo più importante dei livelli di aliquota. La misura sembra quindi collocarsi tra una riedizione “ristretta” dell’Ace, nel frattempo abolita, e una riproposizione dei crediti di imposta agli investimenti e all’occupazione più volte adottati, con effetti perlomeno dubbi, negli ultimi anni.

Sull’Iva si procede esattamente come in passato, sterilizzando gli aumenti previsti per l’anno prossimo e lasciando inalterati gli incrementi di aliquote per il 2020 e il 2021. Non vi è alcuna revisione strutturale delle aliquote e dei beni tassabili che pure sarebbe suggerita da considerazioni di efficienza nel disegno e nell’amministrazione dell’imposta, che continua a risultare evasa in misura massiccia nel nostro paese.

Sempre in tema di tassazione dei consumi, la Nota di aggiornamento al Def fa riferimento a una riforma delle imposte ambientali non meglio precisata, e quindi non commentabile, ma che sembra avere una finalità di mero incremento di gettito.

Contrasto all’evasione tra condono e lotterie

Sul fronte del contrasto dell’evasione si procede con la schizofrenia di questi anni. Da un lato, si fa l’ennesimo condono, i cui termini saranno presumibilmente ancor più generosi delle sanatorie precedenti, con conseguenze ancora più negative sia sull’ordinaria attività di riscossione (come messo in evidenza dalle bozze di Relazione tecnica già circolate) sia sulla futura compliance (e qui non c’è alcuna contabilizzazione, come non c’è mai stata in precedenza). Dall’altro lato, si introducono strumenti come la trasmissione telematica dei corrispettivi e la lotteria fiscale che sono, anch’essi, in preparazione da qualche anno e che potrebbero anche avere effetti positivi (come accaduto, ad esempio, in Portogallo) se potessero essere gestiti da un’amministrazione fiscale che non soffrisse dei problemi di perdita di personale e di riduzione di operatività che invece la affliggono da anni.

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Al di là delle specificità dei singoli provvedimenti, quindi, non sembra che verranno neppure scalfiti i problemi strutturali del nostro sistema fiscale.  L’aliquota effettiva sul lavoro in Italia è pari al 43,2 per cento, è la seconda più alta tra i 28 paesi membri dell’Unione europea ed è aumentata di un punto percentuale nell’ultimo decennio. Eppure, nella manovra non è inserita alcuna riduzione della tassazione sul lavoro dipendente che, anzi, potrebbe essere colpito dall’annunciata revisione delle detrazioni d’imposta (anche questa, peraltro, non certo una novità, quantomeno nelle intenzioni).

Sul piano della tax administration, poi, nei paesi avanzati si discute di come passare dall’approccio repressivo a quello preventivo nel rapporto tra fisco e contribuente, di come eliminare del tutto le dichiarazioni fiscali e di come utilizzare i big data senza violare la privacy dei contribuenti. Da noi, invece, questi argomenti continuano a essere pressoché ignorati perché sono complessi e non generano titoli sui media.

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I validi motivi per bocciare i numeri del Def

  1. Savino

    Alle poche mosche bianche oneste rimaste ci manca solo l’umiliazione di veder scritto su una norma di legge “fesso chi paga”.

    • nicolas

      Troppe volte si è tradito il concetto di leale rapporo tra fisco e contribuente quando tra condoni e budget d’ufficio finalizzato a massimizzare il gettito ( depositatando il concetto di capacità contributiva come suola delle scarpe). Ora tentano la via dell’informatica e delle trasmissioni telematiche con il risultato di opprimere ancora di più le poche attività economiche sopravvissute….

  2. gerardo coppola

    Spero di sbagliarmi ma Lei e’ uno dei pochi economisti che ha raccontato la nuova politica fiscale. Pubblicherei anche la tabella allegata al Def sul gap fiscale pari a piu’ di 1oo miliardi l’anno. Molti, anche illustri policy maker, da come parlano non l’hanno mai vista. Complimenti.

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