L’Iri permette di uniformare la tassazione delle imprese ed eliminare la penalizzazione al reinvestimento degli utili per società di persone e imprese individuali. Ma la legge di bilancio ne rinvia l’applicazione al 2018, solo per recuperare 2 miliardi.
I costi del rinvio
Il disegno di legge di bilancio prevede il rinvio al 2018 di una riforma già operativa dal 1° gennaio 2017: l’imposta sul reddito dell’imprenditore (Iri). Difficile trovare motivazioni che non siano quelle di reperire nell’immediato un po’ di spazi finanziari (circa 2 miliardi nel 2018) per soddisfare le numerose esigenze che stanno già snaturando la manovra , anche a scapito del saldo 2019 (che peggiora di circa 750 milioni) e nonostante i numerosi problemi posti dal rinvio.
Come è stato giustamente lamentato, in primo luogo dalle associazioni di categoria interessate, il rinvio dell’Iri ha effetti retroattivi e costituisce una grave violazione dello Statuto del contribuente. Mina la credibilità del nostro sistema tributario e la reputazione di chi ne è responsabile, in quanto la riforma era già in vigore e i contribuenti interessati ne avevano legittimamente tenuto conto, nell’assumere le proprie decisioni. Annulla una riduzione di imposta attesa per i redditi 2017 e rinvia di un ulteriore anno una riforma di cui il governo stesso ha più volte sottolineato la bontà.
Inizialmente prevista nella legge finanziaria del 2008, ma mai attuata, l’Iri ricompare nella legge delega fiscale del 2014 e viene introdotta con la legge di bilancio dello scorso anno. La motivazione dello slittamento non pare neppure dipendere da insormontabili difficoltà emerse nel frattempo. Molti dei dubbi e timori sollevati all’inizio, soprattutto di carattere tecnico e applicativo, nella lunga gestazione e nel corso del 2017, sono stati in larga parte risolti. Più che servire per affrontare i problemi residui, il rinvio ne comporterà di nuovi, sia per i soggetti che hanno pianificato le proprie attività di impresa tenendone conto, sia per l’amministrazione, che dovrà trovare rimedi che non penalizzino questi contribuenti.
Gli obiettivi dell’Iri
La riforma dell’Iri persegue due obiettivi meritevoli e ampiamente condivisibili: uniformare la tassazione delle imprese, indipendentemente dalla loro forma giuridica; eliminare la penalizzazione al reinvestimento degli utili da parte delle imprese che operano in regime Irpef: società di persone e imprese individuali.
L’Iri consente infatti a questi soggetti (e alle società a responsabilità limitata a ristretta base societaria che hanno scelto il “regime di trasparenza” in Irpef) di optare per la tassazione con l’aliquota Ires del 24 per cento (dal 2017), invece della tassazione in Irpef con aliquote dal 23 al 43 per cento, a cui si aggiungono le addizionali regionali e locali. In caso di prelievo di utili dalla società, per le esigenze personali dei soci, dell’imprenditore e dei suoi collaboratori, i redditi vengono dedotti dall’imponibile Iri e tassati con le normali aliquote Irpef, addizionali comprese.
Con il nuovo regime, i soggetti Irpef che esercitano attività di impresa potranno, a parità di utili lordi, reinvestire di più, rafforzando la struttura patrimoniale delle proprie imprese e senza subire discriminazioni rispetto alle società di capitali.
Nel caso di utili distribuiti, pur in presenza di diversi regimi impositivi per le due tipologie di società, la tassazione resta coerente: quelli distribuiti da una società di capitali (che scontano una parziale doppia imposizione in capo al socio) sono tassati con un’aliquota complessiva molto simile all’aliquota Irpef più elevata, a cui è assoggettato un imprenditore individuale o socio di una società di persone per redditi che superano 75mila euro (più precisamente, stando a quanto previsto dal Ddl di bilancio, a partire dal 2018 la tassazione complessiva (sulla società e sul socio) degli utili distribuiti da una società di capitali sarà del 43,76 per cento, perché la tassazione dei dividendi viene uniformata al 26 per cento eliminando, a fini fiscali, la distinzione fra partecipazioni qualificate e non. La più elevata aliquota dell’Irpef è 43 per cento + addizionali regionali e locali).
La platea dei beneficiari delusi
La platea di potenziali beneficiari dell’Iri è calata, negli ultimi anni, sia per l’introduzione di regimi forfetari sia per alcune semplificazioni che hanno reso più conveniente la trasformazione in società di capitali (Srl semplificata). Ma resta pur sempre molto ampia, tra i tre e quattro milioni di soggetti, circa il triplo delle società di capitali. Molte di queste imprese sono in contabilità semplificata e dovrebbero passare a quella ordinaria, obbligatoria per usufruire del regime Iri. La convenienza di questa opzione rispetto alla tassazione in Irpef di tutti gli utili dipende da molti altri fattori, che devono essere valutati su un arco quinquennale (vincolo temporale dell’opzione): le aliquote Irpef dell’imprenditore, la presenza e dimensione di altri redditi e di detrazioni e deduzioni in sede Irpef, alcune differenze nella determinazione della base imponibile nei due regimi e così via.
Le dettagliate stime proposte nella Relazione tecnica alla legge di bilancio 2017 riguardano solo la posizione individuale delle imprese già in contabilità ordinaria, circa 427mila. Tra queste, circa 280mila avrebbero convenienza a optare per l’Iri, con un risparmio di imposta di 1,2 miliardi (a partire dai redditi 2017). Risparmio che questi soggetti si sono visti improvvisamente sottrarre, pur avendo effettuato i propri piani (e magari pagato anche gli acconti) sulla base del nuovo regime. Tutto per recuperare, nel 2018, includendo gli acconti e le addizionali, circa 2 miliardi di maggiori entrate, per far quadrare i conti della manovra.
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