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Draghi non cambia strategia

Dalla riunione della Bce esce un messaggio chiaro: c’è una ricalibratura del programma di acquisto dei titoli, ma non è indicata alcuna data per la fine del Quantitative easing. Così la Banca centrale continua a essere il più forte collante dell’Eurozona.

Le decisioni della Bce

Niente tapering. Ovvero, nessuna riduzione progressiva e nessuna data di fine del Quantitative easing. Piuttosto, una ricalibratura del programma di acquisti, che durerà almeno ancora sino a settembre prossimo. Nel 2018, il ritmo mensile degli acquisti sarà dimezzato (da 60 a 30 miliardi al mese), ma resta l’opzione di prolungarli e addirittura di aumentarli nuovamente, se necessario. E c’è di più: non solo l’Eurosistema (cioè la Bce più le 19 banche centrali nazionali) continuerà a reinvestire i titoli in scadenza, ma continuerà a farlo per un “prolungato periodo di tempo dopo la conclusione degli acquisti netti di attività”. Insomma, l’eccezionale sostegno monetario della Bce continua e nessuno oggi può dire quando finirà. Mancava solo l’annuncio di un nuovo Tltro, e non è detto che Mario Draghi non se lo tenga in serbo per i prossimi mesi.

La decisione del 26 ottobre è coerente con le parole pronunciate da Mario Draghi a settembre. La Bce considera il programma di acquisti uno strumento flessibile che può essere manovrato al bisogno. Nessuna fine annunciata, dunque, che avrebbe potuto provocare (come era accaduto alla Fed di Ben Bernanke nel 2013) un repentino rialzo dei tassi a medio e lungo termine, pregiudicando una strategia in atto da più di tre anni.

Resta intatta la forward guidance: i tassi non si schioderanno dal livello attuale per un periodo prolungato di tempo e comunque “ben oltre” la fine degli acquisti netti. Già, perché il reinvestimento dei titoli comunque continuerà anche dopo il Qe. E su questo, la Bce fornirà, a partire dal 6 novembre, elementi di maggiore trasparenza sulle modalità del riacquisto dei titoli. Insomma, allungare la vita al Qe significa rinviare il rialzo dei tassi. E quando finirà, e anche quando i tassi dovessero risalire, la Bce potrà comunque continuare a reinvestire i titoli scaduti.

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In questo senso, la decisione sulla più lunga durata del programma appare più significativa di quella del calo degli acquisti mensili. Peraltro, l’effetto del Qe non è determinato dalla dimensione dei saldi liquidi che le banche ottengono in cambio dei titoli venduti dai propri clienti, ma è soprattutto un effetto segnaletico e di riallocazione del portafoglio che abbassa i tassi alle medie e lunghe scadenze.

Inflazione, occupazione e crescita

L’obiettivo è noto: riportare l’inflazione al 2 per cento sostenendo la domanda interna per ridurre l’output gap e far crescere i salari. Un’impresa da realizzare senza alcun aiuto della politica fiscale, che resta ancorata a regole politiche che nulla hanno a che fare con le esigenze e le urgenze dell’economia della moneta unica. Quel che la banca centrale può fare è mantenere un costo del credito eccezionalmente basso, contando sulla domanda estera (dei paesi che crescono più di noi) per avviare uno stimolo moltiplicativo delle esportazioni sulla domanda interna. Per questo era importante rinviare l’apprezzamento dell’euro, che rimane comunque nello scenario e resta la maggiore sfida dei prossimi dodici mesi. L’annuncio del 26 ottobre è riuscito, per ora, a rinviare il problema (vedi grafico 1).

Rivendicando il successo delle misure monetarie nel sostenere la ripresa, Draghi ha tuttavia ribadito che c’è ancora troppa disoccupazione nell’Eurozona. La Bce ha stimato che al dato ufficiale (9,1 per cento ad agosto) va aggiunto un 3 per cento di lavoratori sotto-occupati (che lavorano meno ore di quanto vorrebbero) e un altro 3,5 per cento di persone inattive (che non cercano lavoro, ma sarebbero pronte a farlo in un’economia più forte). Evidentemente, anche la Bce può guardare all’occupazione, sia come mezzo per ristabilire l’inflazione al livello desiderato, sia perché occupazione e crescita sono due suoi obiettivi, ancorché subordinati alla stabilità dei prezzi, come recitano gli articoli 105 e 5 del Trattato UE.

La Bce sa di essere il maggior collante dell’Eurozona e sa che l’incompletezza della moneta unica giustifica, e anzi esige, l’anomalia di una banca centrale che acquista e garantisce, seppur condizionatamente, i debiti delle entità “locali” e cioè dei paesi che ne fanno parte. Sarà così finché non ci sarà un titolo europeo.

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Grafico 1 – Cambio euro/dollaro Usa nella giornata di giovedì 26 ottobre 2017

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  1. ihavenodream

    L’eurobond (creatura immaginaria partorita dalla fervida immaginazione di Prodi & C) non vedrà mai la luce nei prossimi 100 anni almeno. Ma in realtà non serve; è sufficiente che la Bce dica: comprerò titoli di Stato di tutti i paesi che si scosteranno più di 50 punti base dal titolo di stato più “forte”, fino a quando non rientreranno entro i 50 punti base. Non c’è bisogno di fare regole, accordi, cambiare i trattati, basta dire questa cosa semplice, il mercato farà il resto e la Bce non dovrà mai nemmeno stampare un euro. Una riedizione del serpente monetario insomma, ma con i bond. Se i Tedeschi fossero contrari basterebbe dire: a patto che i governi “beneficiari” si sottopongano ad accogliere opportune raccomandazioni sul contenimento del debito dagli altri Paesi membri, nel caso si attivasse la clausola.

  2. SAVINO

    Adesso che, un pò alla volta, si esaurisce il QE voglio vedere chi in Italia si mette a fare il bullo con la UE su deficit e debito o si fa venire in testa di cambiare la legge Fornero

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