Il mercato non basta
Ringrazio i lettori per i commenti all’articolo sulle politiche per la casa. La loro attenzione si è indirizzata principalmente sull’ipotesi di promuovere un consistente programma di investimenti pubblici per incrementare la disponibilità di case popolari. Ho richiamato il piano dell’allora ministro del Lavoro Amintore Fanfani, per rendere l’idea della rilevanza che dovrebbe avere un programma di edilizia sociale, sia quanto a sforzo finanziario per le casse dello stato sia per gli effetti positivi in termini economici e sociale che potrebbe produrre.
L’ipotesi di un’aggiornata versione del piano Fanfani è stata sottoposta a due tipi di rilievo: uno, più radicale, sembra ritenere inutile, se non dannoso, questo tipo di intervento; l’altro è più attento alle conseguenze dalla sua realizzazione.
Non è ovviamente paragonabile la situazione dell’Italia dei primi anni del secondo dopoguerra con quella attuale (Spampinato). Ora come allora, però, una parte della popolazione non ce la fa a risolvere il problema della casa (come altri problemi) senza un aiuto pubblico o addirittura senza l’assegnazione di una casa popolare. Fortunatamente la sua consistenza e il suo peso relativo si sono enormemente ridotti in quasi sessanta anni. In termini generali si può concordare sulla necessità di semplificare le procedure amministrative nel settore dell’edilizia e di intervenire sulle altre questioni alle quali accenna Schmit. Ma le condizioni di disagio e di emergenza abitativa in cui vivono le famiglie in difficoltà economica e sociale, non si risolvono con il solo operare della mano visibile o invisibile del mercato, né tanto meno facendo fare completamente al mercato (Spampinato). Vi è una domanda di abitazione che può essere soddisfatta dall’offerta di case a condizioni di mercato, solo se prima le famiglie che la esprimono raggiungono stabilmente livelli di reddito che consente loro di affacciarsi sul mercato. Alcune di esse impiegano anni prima di raggiungere quei livelli; altre possono non raggiungerli mai, magari loro malgrado. E, finché vi restano al di sotto, continuano a essere necessari interventi di politica per la casa, salvo ritenere che la soluzione di questo problema non rientri più tra le politiche pubbliche. Naturalmente, si può discutere sulle modalità, sulle forme e su ogni altro aspetto dell’intervento pubblico per aiutare le famiglie che vivono una situazione di malessere abitativo. L’ipotesi prospettata da Vincenzi, consentirebbe di prendere due piccioni con una fava; proposte analoghe sono state discusse più anche su lavoce.info (qui, qui e qui).
Priorità alla riqualificazione
Non è da trascurare la preoccupazione (di Pagliarini) che un consistente programma per incrementare il patrimonio di alloggi pubblici possa comportare il consumo di suolo vergine, e che sarebbe opportuno, innanzi tutto, riqualificare il patrimonio esistente. Con l’avvertenza (suggerita da Bob) che la carta geografica di quel patrimonio non è proprio sovrapponibile alla mappa della domanda di case accessibili a chi non può farlo a condizioni di mercato, è indubbio che la riqualificazione di singoli edifici e la rigenerazione urbana di interi isolati sono la strada da privilegiare. Naturalmente questo è possibile soprattutto utilizzando il patrimonio esistente già di proprietà pubblica, anche convertendo a residenza immobili con ora hanno un’altra destinazione urbanistica. Dal 1° gennaio del 2018 le spese per gli interventi potrebbero essere in parte coperte con i proventi degli oneri di urbanizzazione, contribuendo così ad affrontare il problema del finanziamento del programma (posto da Savino). Non si può ovviamente escludere del tutto che la realizzazione del programma comporti anche la costruzione di nuovi immobili. Ma quando questo diventa necessario, le case popolari non devono diventare una moneta di scambio.
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