Con il nuovo Senato non è tanto la mancanza di legittimità democratica o di contrappesi a rappresentare un rischio, quanto le ambiguità sui rapporti fra governi e i possibili riflessi sulla tenuta dei conti pubblici. Il superamento del bicameralismo perfetto e il sistema di formazione delle leggi.
Verso l’approvazione definitiva
Si avvicina il momento in cui la Camera potrà approvare in modo definitivo la riforma costituzionale, licenziata in prima lettura dal Senato nell’ottobre 2015 e poi, come prescrive la legge, riapprovata nella medesima formulazione da Camera e Senato a intervalli predeterminati. Poiché non c’è nessun dubbio che la Camera, dove il Pd gode di una solida maggioranza, dirà sì alla riforma, l’iter parlamentare si può considerare ormai concluso. Il prossimo passo è il referendum confermativo, probabilmente nell’autunno di quest’anno. Il presidente del Consiglio ha già annunciato che, nel caso l’elettorato respinga la riforma, rassegnerà le dimissioni. La posizione del primo ministro non è sorprendente. Per dimensione e rilevanza, la riforma costituzionale caratterizza l’operato del suo governo più di ogni altro provvedimento e se gli elettori la respingessero, Matteo Renzi non potrebbe che trarne le debite conclusioni. Va anzi dato atto al governo di essere riuscito a portare la riforma fino in fondo, nonostante la risicata maggioranza al Senato; non molti ci avrebbero scommesso all’inizio. La riforma è molto complessa, e investe diversi aspetti. Qui ci limitiamo a qualche commento.
Il superamento del bicameralismo perfetto
Il punto fondamentale della riforma è il superamento del bicameralismo perfetto: l’esecutivo non avrà più bisogno del voto di fiducia del Senato per governare e su quasi tutta la legislazione ordinaria il ruolo del Senato è puramente consultivo. Può chiedere di esaminare (su richiesta di un terzo dei suoi componenti) ogni proposta di legge, ma la Camera può benissimo non tener conto delle proposte dei senatori. Per la legislazione ordinaria, l’unico caso in cui ha compiti più rilevanti è sulle materie indicate dall’articolo 117, quarto comma: sostanzialmente, sono le materie assegnate agli enti territoriali di governo, regioni in primo luogo. In questo caso, la Camera può discostarsi dalle decisioni del Senato solo a maggioranza assoluta (la maggioranza degli aventi diritto). Il minor ruolo del Senato, aggiunto al fatto che non sarà più direttamente eletto dai cittadini ma dai consigli regionali (sebbene rispettando le “scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi” come recita il testo approvato) è il punto su cui si è dibattuto di più e su cui sicuramente si concentrerà la battaglia referendaria. I critici temono che il nuovo sistema conduca a una perdita di legittimità del Senato e a rischi sulla tenuta democratica del paese, soprattutto perché accompagnato da una legge elettorale di tipo maggioritario alla Camera. In un’ottica comparativista, questi rischi sembrano esagerati. Il Senato non è un contropotere, ma una camera legislativa, e il fatto che in passato le maggioranze parlamentari al Senato e alla Camera siano state spesso diverse (generando una non molto edificante transumanza di senatori dall’opposizione alla maggioranza subito dopo le elezioni) ha creato non pochi problemi alla funzionalità e coerenza dei governi. Di più, il bicameralismo perfetto resta in realtà in vigore per le garanzie costituzionali; il voto del Senato è infatti richiesto per le leggi di revisione della Costituzione, le leggi costituzionali, i referendum popolari e le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo e le funzioni fondamentali dei comuni e delle città metropolitane. Il Senato poi contribuisce a eleggere il Presidente della Repubblica e a nominare i membri della Corte costituzionale. Del resto, tra le grandi democrazie a regime parlamentare, l’Italia è l’unico paese ancora caratterizzato dal bicameralismo perfetto, a dimostrazione del fatto che non esiste un legame necessario tra quest’ultimo e un sistema democratico. Infine, se si vogliono camere con funzioni differenziate, bisogna per forza che senatori e deputati siano eletti in modo diverso, altrimenti non si capisce bene perché i senatori non abbiano il diritto di occuparsi di tutto quello di cui si occupano i deputati.
I rapporti tra governi
Ciò che appare invece più discutibile della riforma è quello di cui non si è discusso affatto, e cioè i rapporti tra governi. Il nuovo Senato dovrebbe rappresentare in primo luogo i governi dei territori, ma non si capisce bene in che modo lo farà. Non è un Bundesrat (dove sono rappresentati solo gli esecutivi e i rappresentanti di una regione votano con voto conforme); e non rappresenta solo le regioni perché per più di un quinto i senatori saranno sindaci delle grandi città. La riforma riduce il numero dei governi, con la definitiva abolizione delle province, e semplifica l’attribuzione delle funzioni tra Stato e regioni, con la soppressione delle funzioni a competenza concorrente. Tutto ciò, unito alla reintroduzione del principio dell’interesse nazionale, dovrebbe servire a ridurre il contenzioso costituzionale, esploso dopo la riforma del titolo V del 2001. In parte, perché le regioni tramite i loro rappresentanti al Senato saranno direttamente coinvolte nella formulazione delle leggi che incidono sulle loro funzioni; e in parte, perché l’interesse nazionale dovrebbe rafforzare la posizione dello Stato di fronte alla Corte costituzionale. Tuttavia, a ben guardare, la semplificazione nella attribuzione delle materie può rivelarsi più apparente che reale: in molti casi per distinguere tra funzioni che si trovano sia nell’area statale che in quella regionale sono state semplicemente aggiunte le dizioni “a interesse nazionale” o a “interesse regionale”. Poiché però non è ovvio cosa sia di interesse regionale o nazionale, è ipotizzabile che il conflitto sull’attribuzione delle competenze qui resti. Discutibili sono anche altri aspetti. Il governo ha di fatto eliminato ogni autonomia tributaria regionale o locale, ma nella Costituzione il sistema di finanziamento per gli enti territoriali è rimasto invariato, con una forte accentuazione federalista che sempre più stride con la realtà dei fatti. Si è persa invece l’occasione storica per accorpare le regioni a statuto ordinario più piccole e rivedere il ruolo di quelle speciali. Soprattutto, non si capisce se si introduce una gerarchia tra governi locali – come fanno pensare alcuni articoli, in particolare il 119 sui patti di stabilità verticali – o se i diversi livelli di governo sono messi sullo stesso piano, tant’è che i sindaci delle principali città diventano ora senatori mentre gli emolumenti dei consiglieri regionali non possono superare quelli dei sindaci.
I conti pubblici
Il nuovo sistema di formazione delle leggi suscita qualche preoccupazione di tenuta dei conti. Quale che sia il loro colore politico, i nuovi senatori, non più vincolati dal voto di fiducia, avranno l’incentivo comune ad aumentare la spesa degli enti locali intervenendo sulle leggi di loro competenza. Non è ovvio se la maggioranza assoluta richiesta alla Camera per respingere le proposte del Senato rappresenterà un argine sufficiente. Soprattutto perché la nuova legge elettorale per la Camera (l’Italicum), benché maggioritaria, garantisce alla maggioranza parlamentare meno voti di scarto rispetto alla minoranza di quelli garantiti dai governi di coalizione in passato. Con molti parlamentari della maggioranza impegnati in attività di governo, raggiungere la maggioranza assoluta non sarà semplice.
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