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Per 900 parole in più

Permangono nel nostro sistema di istruzione marcate differenze sociali. Mentre restiamo indietro rispetto ai paesi più avanzati in termini di competenze e studi completati. Sono necessarie azioni più forti e continue. E un nuovo patto sociale che ridia dignità e valore alla scuola.
Don Milani sessanta anni dopo
“Un operaio conosce 100 parole, il padrone 1000. Per questo lui è il padrone”. Son passati sessant’anni da questa frase di don Lorenzo Milani, insegnante alla scuola di Barbiana.
Oggi come allora, però, quelle 900 parole contano, eccome. Il mondo è cambiato, ma le 900 parole che separavano l’operaio dal padrone sono ancora quelle che fanno la differenza tra un lavoro mal pagato e uno migliore.
Come scrive Gabriele Borg in un recente contributo su lavoce.info “negli Stati Uniti il reddito in termini reali di coloro che hanno un titolo di studio superiore al diploma è cresciuto del 90 per cento negli ultimi cinquanta anni, mentre per chi non ha completato le high school è diminuito del 10 per cento”. Per l’Italia stessa storia. Lo dice anche l’Istat nel suo documento su reddito e condizioni di vita nell’anno 2013, “Il reddito familiare cresce anche all’aumentare del livello di istruzione del principale percettore: le famiglie di laureati percepiscono mediamente quasi 38mila euro, cifra più che doppia rispetto a quella delle famiglie con principale percettore con basso o nessun titolo di studio (16.637 euro)”.
Ma non c’è solo il reddito, le 900 parole sono servono anche per essere più consapevoli dei propri diritti, per capire se un amministratore racconta fuffa, per difendersi da bufale e ciarlatani o per fare scelte migliori in tema di salute, alimentazione e stili di vita.
Studiare serve
Studiare fa vivere meglio, noi e gli altri. Ma ancora non ce ne rendiamo conto. Basti pensare che, stando ancora ai dati Istat su benessere equo e sostenibile, nel 2013 la quota di italiani con età tra i 25 e i 64 anni che hanno un diploma superiore era del 58,2 per cento, più di 15 punti percentuali in meno della media europea (pari al 74,9 per cento). E per i laureati il divario è ancor maggiore: 22,4 per cento in Italia, contro il 40 per cento europeo.
Se anziché di titolo di studio parliamo di competenze, le cose non vanno meglio. Come scrive il rapporto sul livello di competenze nei paesi Ocse, uscito pochi giorni fa, l’Italia è l’ultima tra ventitré nazioni per competenze “letterarie” (abilità nel leggere e scrivere), sia nella fascia d’età tra i 16 e i 29 anni che in quella tra i 30 e i 54. E non consola il fatto che per competenze matematiche siamo penultimi, di poco avanti rispetto agli Stati Uniti. Dimensioni e caratteristiche della nostra economia sono infatti tali che il nostro progresso non può che essere basato su attività ad alto valore aggiunto, dove le competenze sono necessarie.
Impari opportunità
In tema di istruzione permangono poi marcate differenze sociali. Quelle 900 parole sono ancora lì a differenziare le classi sociali e dicono che i ragazzi figli di genitori con titoli di studio più elevati abbandonano gli studi assai meno rispetto ai figli di chi ha frequentato solo la scuola dell’obbligo: il tasso di abbandono scolastico è infatti del 2,7 per cento per i figli dei laureati e del 27,3 per cento per i figli di chi ha la scuola dell’obbligo (fonte Istat, vedi figura 1). E ciò è vero anche in termini di mobilità verso l’alto. In media, nei paesi del rapporto Ocse “Education at a Glance 2014: OECD indicators”, un giovane tra i 20 e i 34 anni i cui genitori hanno un diploma di scuola media superiore ha una probabilità doppia di ottenere una laurea rispetto a chi ha i genitori che hanno frequentato solo la scuola dell’obbligo. Se i genitori sono laureati la probabilità diventa 4,5 volte maggiore. In Italia il divario diventa ancor più grande: i figli dei laureati hanno una probabilità ben 9,5 volte maggiore.
Figura 1 – Tasso di abbandono precoce del sistema di istruzione e formazione (sinistra) e quota di giovani che non lavorano e non studiano (destra) in funzione del titolo di studio dei genitori
grafico martin
Fonte Istat, rapporto Bes “Benessere equo e sostenibile in Italia” 2014)
Non ci resta che piangere?
Non ci resta che piangere, allora? No, c’è invece molto da fare. Il metro con cui misurare la buona scuola è anche quello della capacità di accogliere e di raggiungere chi è più distante, di offrire a tutti le stesse condizioni di partenza, di mettere in atto fino in fondo l’articolo 34 della Costituzione. Una scuola che non divida, ma sia invece strumento principe di promozione sociale e di integrazione. Basti pensare a quanto può fare la scuola per l’integrazione di chi emigra nel nostro paese. È significativo ad esempio che Angela Merkel abbia indicato l’insegnamento del tedesco tra le priorità delle azioni a favore dei rifugiati in Germania.
Sarebbe ora che l’istruzione diventasse argomento quotidiano e forte per governo e opposizione, un terreno di confronto e di azione continua: con le riforme, certo, con strumenti che incentivino la mobilità educativa tra generazioni e raggiungano e convincano chi a scuola non ci va o fa fatica a continuare. Con piccoli, ma importanti segnali, come mettere a disposizione nelle scuole la carta igienica o quella per le fotocopie. E soprattutto, promuovendo nei fatti e con l’esempio un nuovo patto sociale che riporti dignità e valore alle scuole, a chi ci lavora e a chi ci va.

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10 commenti

  1. Alfredo Giannantonio

    Grazie per questo articolo, ottima analisi — molto lucida — di alcuni problemi del nostro sistema scolastico, che rischiano di aumentare la stratificazione sociale ed economica dell’Italia odierna e futura

  2. Ottimo articolo. Credo che, tra le cose da fare, vi sia una profonda riforma dei programmi della scuola media inferiore. Oggi, i ragazzi sono asfissiati da programmi ricchissimi di nozioni specialistiche, che usciranno dalla loro memoria (se mai vi sono entrate) nel giro di pochi giorni (per esempio, le complicatissime classificazioni degli esseri viventi, in scienze, o dei complementi indiretti, in analisi logica). Occorrerebbe invece arricchire il vocabolario dei ragazzi, con la lettura di romanzi e la spiegazione di articoli, educarli all’esposizione (sintetica) e alla logica, farli appassionare allo studio della storia e della geografia (come funzionano i rapporti internazionali, piu’ che i prodotti agricoli del Portogallo).

  3. lorenzo colovini

    letto e condivido il rapporto tra istruzione reddito. Concordo anche sul fatto che l’istruzione sia strumento non solo di benessere fisico (reddito) ma anche di consapevolezza e, in senso lato di qualità della vita. Mi resta però un dubbio: la desolante posizione nelle classifiche OCSE mi fa specie: la nostra scuola superiore è di ottimo livello mediamente e non a caso i nostri laureati sono molto apprezzati all’estero. Siamo davvero sicuri che siamo così scarsi?

    • Piero MArtin

      Grazie per il commento, molto puntuale. Non credo che le due osservazioni – (1) scuola e università di ottima qualità e (2) in media modeste competenze letterarie e matematiche – siano contraddittorie. Una chiave di lettura, da approfondire naturalmente, può essere quella che le scuole sì sono buone, ma sono ancora troppo pochi ad andarci. Il dato sul divario tra li percentuali di diplomati e laureati in Italia e in Europa va, purtroppo, in questo senso. In altre parole abbiamo il potenziale – e lo dimostriamo – per avere ottime scuole, ma sprechiamo questa opportunità, anche a causa delle “impari opportunità” di cui parlavo nell’articolo.

  4. z f k

    Occhio che può verificarsi anche un problema di eccesso di offerta, che si risolve in sovraqualificazione.
    http://www.cbc.ca/news/business/pbo-jobs-1.3317890
    http://www.statcan.gc.ca/pub/75-006-x/2014001/article/11916-eng.pdf
    Per il resto (“le 900 parole sono servono anche per essere più consapevoli dei propri diritti, per capire se un amministratore racconta fuffa, per difendersi da bufale e ciarlatani o per fare scelte migliori in tema di salute, alimentazione e stili di vita.”) mi trovo pienamente d’accordo.
    CYA

  5. Francesco

    Ho 33 anni. Ho una laurea specialistica in Italia Relazioni Internazionali, un MSc dalla SOAS di Londra in Management and Finance, parlo e scrivo correntemente 4 lingue e sto prendendo l’ACCA. I miei hanno la 3° media. Ho studiato per 10 anni tra università in Italia e UK ad oggi, prendo 1500 Euro/mese a nero, invio caterve di CV a cani e porci in giro per l’Europa e tutti mi rispondono che non hanno bisogno o “you don’t meet our requirements” o altre amenità del genere e lo faccio da almeno 6 anni. Di tutto sto brodo su quanto sia bello studiare e come si vive meglio se hai un bel titolo, mi dispiace ma non condivido nulla. Avessi a 17 anni imparato a fare il marmista avrei preso ora lo stesso stipendio senza tanto preoccuparmi di De Saint Simon, De Toqueville, Keynes, Diritto, Statistica e Lingue Straniere. Voi continuate a negare l’evidenza: l’educazione nella società dei consumi non è più un ascensore sociale. Non si diventa più ricchi solo perchè si è studiato di più. E’ evidente, nepotismo, preferenze ed emigrazioni sono l’unica discriminante sul trovare o non trovare un posto di lavoro. Sono sicuro che invece sua madre e suo padre oltre a farla studiar le abbiano anche garantito un rete di connivenze e contatti tali per cui adesso lei fa il Fellow Researcher ecc. Sono stanco di gente come lei Martin mi dica che mi sta pisciando in testa non che sta piovendo. Sia più onesto con gli altri vivrà meglio – Francesco Grosso – Lignano

    • Piero Martin

      Gentile Francesco, non vivo fuori dal mondo e non nego ci sia un grave problema.
      Non ho ricette magiche, ma è fondamentale parlarne, prendere consapevolezza che la scuola è un luogo sacro per la democrazia e cruciale per la crescita del Paese. Occorre ridarle dignità, anche a partire dai piccoli gesti. Ognuno come può: vuol dire cittadinanza attiva.
      Lei parla del marmista. Ma non ci sono mestieri di serie A per i quali l’istruzione è importante e altri di serie B per i quali si può farne a meno. Una comunità ha bisogno di tutti e l’istruzione aiuta tutti ad avere una vita migliore.
      Lei fa insinuazioni sulla mia onestà e sulla rete familiare di connivenze e contatti, e si sbaglia. Buttare fango nel ventilatore va di moda, ma non aiuta né a risolvere i problemi né a migliorare il mondo. Il mio CV è disponibile on line e le assicuro che “fellow” dell’APS non si diventa grazie a connivenze (http://www.aps.org/programs/honors/fellowships/).
      Sono orgoglioso figlio di un papà tecnico, di una mamma casalinga e nipote di nonni operai. Avrebbero desiderato studiare di più, ma le loro condizioni economiche non lo permisero. Niente contatti, niente connivenze. Solo esempi e racconti che mi hanno aiutato a dar valore allo studio, come quello di una nonna che prima di andare alle elementari usciva alle quattro di mattina a pascolare le mucche dei padroni. Un secolo dopo, in modi diversi, quella storia è ancora attuale. E dobbiamo rimboccarci le maniche perché non sia più così.

    • Fabio C

      Ho una laurea tecnica a pieni voti in un’unviersità prestigiosa, ho un Executive MBA ancora più prestigioso, perché coseguito in una delle top 30 Business School mondiali, parolo 4 lingue correntemente, ho 30 anni di esperienza professionale… e per lavorare sono dovuto emigrare in UK. Sono completamente d’accordo, ma temo che il problema sia molto più profondo e radicato nella società italiana.

    • bob

      ..il marmista puoi sempre farlo ma la cultura fa la differenza adesso più di prima. La cultura è come la riserva di grasso del cammello serve sempre e nei momenti più impegnativi. Il problema di questo Paese è proprio dato dal pauroso vuoto culturale che inevitabilmente trascina a fondo anche persone come Te. Non dimentichiamoci che chi è stato per 20 anni Ministro delle Riforme uno che giocava le schedine ad un bar del Varesotto

  6. Stefano Boscolo

    Credo che permarranno sempre delle differenze all’interno dell’istruzione, il substrato dal quale ognuno di noi proviene influenza in modo predominante la nostra attitudine allo studio (e non credo sia questo il problema, la diversità è una ricchezza…). Trovo invece che sia altisonante rimettere nelle mani dell’istruzione come oggi la conosciamo questo compito, un’università portatrice di tutti quei valori su cui quotidianamente ci battiamo… Peccato che ora guardo a quello che l’istruzione, ripeto l’istruzione per come la conosco ora, mi dà, e vedo cose che mi lasciano molte perplessità: pacchetti preconfezionati di definizioni e saperi ottimi per poter essere un cittadino migliore; dinamiche che mi portano a competere in modo non costruttivo con i miei colleghi sulla conoscenza di concetti fini a se stessi con il solo obiettivo di ottenere un bel voto, e non di imparare qualcosa; incapacità di stimolare la fantasia, la creatività e la voglia di conoscere; ecc. Sino a quando continueremo ad associare l’istruzione all’educazione (non è il conseguimento del titolo di studio, questa corsa ai titoli, che mi educa) continueremo a vedere un’istruzione che ci differenzia e non ci unisce. Prima di pensare a quanti laureati in più l’Italia ha bisogno, non è forse meglio concentrarsi sul paradigma educativo che caratterizza la nostra istruzione?

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