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Sulla Turchia l’ombra di una crisi profonda

Inflazione altissima e una crescita “drogata” da interventi di governo che minano la stabilità economica futura del paese: la Turchia è sulla soglia di una grave crisi. Ed è difficile che la situazione cambi dopo le elezioni politiche di maggio.

Inflazione alle stelle

La Turchia è sull’orlo di una crisi innescata dall’inflazione. A novembre 2022, infatti, l’incremento dei prezzi ha oltrepassato l’80 per cento, anche se il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, non sembra preoccuparsene.

Non è la prima volta che la Turchia affronta il problema della stabilità dei prezzi. Tra gli anni Ottanta e i Duemila, il tasso di inflazione ha raggiunto picchi oltre il 100 per cento, ma nei primi anni del nuovo millennio la situazione era migliorata, grazie a un programma di targeting dell’inflazione, ossia di politiche monetarie volte a contenere il fenomeno identificando un tasso desiderato dalla banca centrale turca. 

Un’alta inflazione è estremamente dannosa sia perché porta all’erosione dei redditi, causando problemi soprattutto alle fasce meno abbienti della popolazione, sia perché rende il paese più vulnerabile a shock esterni.

La Turchia è infatti molto esposta dal punto di vista dei beni energetici: secondo l’Ocse, il paese importa il 99 per cento del gas e il 93 per cento del petrolio. Non a caso, la diminuzione dei prezzi dell’energia negli ultimi due mesi si è riflessa in una forte riduzione del tasso d’inflazione turco, che è passato da circa l’80 per cento a circa il 60. Ciononostante, le aspettative sull’inflazione per l’anno prossimo rimangono sopra il 40 per cento.

L’aumento dei prezzi, tuttavia, non sembra tra le priorità di Erdogan, il quale mira alla crescita economica del paese a qualsiasi costo, per rafforzare la sua base elettorale in vista delle elezioni di maggio 2023.

Dopo una forte crescita dell’11,4 per cento nel 2021, il dato più alto negli ultimi 60 anni, l’Ocse stima un aumento del Pil del 5,3 per cento per il 2022 e di circa il 3 per cento negli anni successivi.

La banca centrale turca, ormai alle dipendenze di Erdogan, ha avuto cinque governatori in 8 anni. Ogni volta che un banchiere si è minimamente opposto alle richieste poco ortodosse del presidente della Repubblica di Turchia, è stato immediatamente sostituito. L’indipendenza della banca centrale è un requisito fondamentale per svolgere una politica monetaria adeguata, altrimenti, come in questo caso, si mette a rischio la sua credibilità e, più in generale, la stabilità economica.

Il tasso d’inflazione target della banca centrale turca è del 5 per cento, nel medio-lungo termine, ma le aspettative sono completamente disancorate da questo valore. Erdogan vuole infatti perseguire una politica monetaria espansiva, mantenendo i tassi di interesse bassi per stimolare l’economia. A novembre 2022 il tasso d’interesse è stato fissato al 9 per cento – dopo mesi in cui è stato nettamente tagliato – segnalando ancora una volta che non c’è alcuna intenzione di contrastare seriamente l’inflazione.

Figura 2 – Tassi d’interesse chiave

Seppure timidamente, sono state intraprese alcune misure per contenere la gravità del problema, per esempio con controlli sui negozi. Tuttavia, non è con provvedimenti di questo tipo che si può contrastare una troppo elevata crescita dei prezzi.

Per diminuire il malcontento della popolazione impoverita e per continuare a sostenere in modo artificioso la domanda, la politica fiscale è stata fin qui molto espansiva. Il governo non sembra volerla ridurre, anzi avanza proposte su nuove spese pubbliche. Tra le ultime misure adottate c’è quella sui criteri per il pensionamento: non sussiste più alcun requisito di anzianità (in precedenza era di 58 anni per le donne e di 60 anni per gli uomini), per andare in pensione è sufficiente aver maturato tra i 20 e i 25 anni di contributi versati. Tutto ciò riguarda solamente chi ha iniziato a lavorare prima del 1999, circa 2 milioni di turchi, e le prime stime del ministro del lavoro indicano un costo che ammonta a oltre 200 miliardi di lire turche (5 miliardi di euro).

Il governo è intervenuto anche sul salario minimo, praticamente raddoppiato rispetto a inizio anno 2022 e arrivato a 9.500 lire turche (circa 425 euro). L’obiettivo principale di queste misure non è incentivare i consumi, ma raccogliere consenso tramite “mancette elettorali”. Il rapporto debito/Pil, tuttavia, è tornato ai livelli pre-pandemici, attestandosi al 34,8 per cento nel terzo trimestre del 2022, mentre il deficit per l’ultimo anno è pari all’1 per cento.

Erdogan, inoltre, sostiene che una lira turca debole è un bene per l’economia turca perché in questo modo si incentiverebbero le esportazioni. A inizio 2023 il rapporto tra euro e lira è quasi sette volte quello del 2014; la lira si è quindi fortemente svalutata nei confronti della moneta europea, impoverendo i cittadini e le loro aziende. Nel 2021 il valore della lira è diminuito del 50 per cento, ma l’indebolimento della valuta ha aiutato le esportazioni e anche la crescita reale. Gli effetti negativi di una valuta debole sono così stati momentaneamente oscurati, già oggi però iniziano a vedersi e presumibilmente lo saranno ancora di più nel futuro.

Nonostante un aumento record delle esportazioni di beni (33 per cento), nel 2022 la bilancia commerciale della Turchia è nettamente peggiorata, con le importazioni nette che sono passate 7 a 42 miliardi di dollari, probabilmente a causa dell’aumento del costo dell’energia, una voce pesante nel bilancio dello stato turco.

In generale, le aziende turche devono affrontare una sorta di darwinismo sociale, e solo le migliori riescono a sopravvivere in un panorama così poco favorevole. Molti imprenditori si dicono ormai abituati a una situazione che non facilita lo sviluppo delle loro aziende e hanno sviluppato meccanismi di difesa. Una lira debole, infatti, comporta un maggior costo per le importazioni e un conseguente impoverimento dei turchi e delle loro aziende nei confronti dei paesi esteri.

Il futuro e le elezioni

Il destino della Turchia è incerto, sia economicamente che politicamente, soprattutto in vista delle prossime elezioni. La Corte costituzionale turca, anch’essa ormai al totale servizio di Erdogan, ha bloccato i fondi per il Partito democratico dei popoli, partito dell’opposizione pro curdi, mentre il mese scorso il sindaco di Istanbul – potenziale avversario del presidente – è stato estromesso dalla politica, ed è attualmente in attesa di giudizio. Erdogan, che ha 68 anni, vuole rimanere a ogni costo al potere, ma perde consenso. Per questo motivo continua ad annunciare nuove spese pubbliche, con effetti che dovrebbero vedersi nei prossimi mesi e spera in una crescita “dopata” che lo aiuti a prendere voti. In ogni caso, i sondaggi elettorali sembrerebbero dalla parte del presidente turco, anche se con margini più risicati rispetto alle scorse elezioni. Se rieletto, manterrebbe il potere per il terzo decennio consecutivo, allontanando la Turchia sempre di più dai paesi occidentali e probabilmente riducendo ulteriormente le libertà dei cittadini.

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Il Punto

  1. Bravo Ivan! Degno di un efficace Executive Summary.
    corrado

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