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Povertà e decreto flussi: le due facce del governo Meloni

La legge di bilancio ha riformato il Reddito di cittadinanza imponendo obblighi di attivazione. Ma si tratta solo di un maquillage che non interviene sull’aspetto più rilevante: la condizionalità del beneficio. E il governo ne è ben consapevole.

La durata massima del Rdc

A decorrere dal 1° gennaio 2024 sono abrogate le norme della legge che avevano introdotto il Reddito di cittadinanza (Rdc). Lo dispone la legge di bilancio (n. 197/2022), che istituisce in sua sostituzione il Fondo per il sostegno alla povertà e all’inclusione attiva (comma 321), preannunciando un’organica riforma delle misure di sostegno alla povertà. Ma nessuna riforma avrà successo se non saprà attivare una equa ed effettiva condizionalità del sostegno del reddito. La stessa legge di bilancio, del resto, non modifica i requisiti di accesso al sostegno previsti dal decreto legge n. 4/2019, ma si limita a imporre un limite di durata massima e a dare un giro di vite in materia di condizionalità, che però è puramente teorico.

Per quel che riguarda la durata, il Rdc viene erogato dal 1° gennaio al 31 dicembre 2023 nella misura massima di sette mesi (comma 313) in deroga alla disciplina originaria che lo riconosceva per un periodo continuativo di 18 mesi con la possibilità di rinnovarlo dopo la sospensione di un mese. La disposizione sulla durata massima non si applica ai nuclei familiari con persone disabili, minorenni o persone con almeno sessant’anni di età (comma 314).

La condizionalità non funziona…

Quanto al comportamento richiesto agli “occupabili” (nozione, questa, dai confini assai incerti) per poter godere del beneficio, dal 1° gennaio 2023 i soggetti (di età compresa tra i diciotto e i sessantacinque anni) considerati tali, cioè coloro che devono sottoscrivere il patto per il lavoro o il patto per l’inclusione sociale (ne sono esonerati i componenti del nucleo familiare percettori di una pensione o di età superiore a 65 anni, già occupati, frequentanti un corso di studi, con carichi di cura o con disabilità), devono essere inseriti per un periodo di sei mesi in un corso di formazione o di riqualificazione professionale. Per acquisire quali competenze? La norma non lo dice. Rispetto al passato, la partecipazione a un corso di formazione diventa però obbligatoriae,in caso di mancata frequenza al corso assegnato, tutto il nucleo familiare del beneficiario del Rdc decade dal diritto alla prestazione. Il controllo sull’adempimento dell’obbligo di frequenza ai corsi di formazione è, come al solito, affidato alle singole regioni. Queste sono tenute a trasmettere all’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal) gli elenchi dei soggetti che non rispettano l’obbligo di frequenza: la norma non dice quante assenze sono tollerate né come devono essere giustificate, lasciando di fatto su questo punto delicato una amplissima discrezionalità interpretativa a chi dovrà applicarla. L’Anpal dovrebbe poi notificare l’elenco all’Inps, che a sua volta dovrebbe provvedere a dichiarare la decadenza dal beneficio. Un giro dell’oca già ampiamente sperimentato, nel quale non si arriva mai alla casella finale.

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Invece, i percettori di Rdc di età compresa tra diciotto e ventinove anni che non hanno adempiuto l’obbligo di istruzione scolastica (di durata decennale), dal 1° gennaio 2023 devono iscriversi e frequentarei corsi di istruzione degli adulti di primo livello presso i centri provinciali d’istruzione (Cpia). Per rendere operativo l’obbligo di partecipazione ai corsi di formazione o l’obbligo d’iscrizione ai corsi provinciali d’istruzione degli adulti manca però un protocollo che dovrà essere stipulato dal ministero dell’Istruzione e del merito e dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali. La norma, tuttavia, non dice entro quando dovrà essere adottato.

Tutti i percettori di Rdc che abbiano sottoscritto un patto per il lavoro o un patto per l’inclusione sociale devono partecipare a progetti utili alla collettività nel comune di residenza: in precedenza, e con maggiore realismo, il numero era limitato a un terzo dei percettori. L’obbligo però è subordinato ai progetti predisposti dai comuni che devono attivarsi in tal senso.

Infine, è disposta la decadenza dal Rdc quando uno dei componenti il nucleo familiare non accetti la prima offerta di lavoro congrua. Fino al 31 dicembre 2022 la decadenza era prevista se il beneficiario non accettava la seconda “offerta congrua” nei primi diciotto mesi o la prima offerta congrua a seguito di rinnovo del beneficio, dopo diciotto mesi di fruizione del trattamento.

In base al comma 317, che rinvia in proposito all’art. 25 del decreto legislativo n. 150/2015 e al suo decreto attuativo, l’offerta può considerarsi congrua se risponde ad alcuni requisiti di “prossimità” geografica e professionale rispetto alla situazione della persona interessata, nonché di adeguatezza della retribuzione offerta e di durata del contratto.

Il punto è che – come è stato mostrato su questo sito da Francesco Giubileo – l’“offerta congrua” nella realtà non esiste: le imprese non delegano i centri per l’impiego a proporre i propri posti vacanti a persone che non hanno mai incontrato, e neanche a persone che sanno essere riluttanti ad accettare l’offerta. È per questo che la condizionalità, per i percettori del Rdc al pari dei percettori della Naspi (trattamento di disoccupazione), non ha mai funzionato. Tanto è vero che in quattro anni di attivazione del Rdc i casi di revoca del beneficio si contano soltanto in poche decine e sono quasi tutti casi di irreperibilità della persona interessata al domicilio, o di mancata presentazione al Cpi.

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… e il governo ne è ben consapevole

Si capisce allora perché il governo, pressato dalle imprese che non trovano il personale che cercano, abbia autorizzato nel mese di dicembre un “decreto flussi” per l’ingresso di cittadini di stati non appartenenti all’Ue per 82.705 unità. Il provvedimento prevede che il datore di lavoro che voglia assumere dall’estero un cittadino non comunitario debba verificare presso il centro per l’impiego competente l’indisponibilità di un lavoratore presente sul territorio nazionale a ricoprire il posto di lavoro per il profilo richiesto, secondo le modalità contenute in un’apposita nota operativa predisposta dall’Anpal. Al riguardo l’Agenzia ha comunicato che a breve renderà disponibile un modello di richiesta di personale al centro per l’impiego da parte del datore di lavoro, al fine di garantire un’applicazione uniforme su tutto il territorio nazionale. E c’è da scommettere che i Cpi dichiareranno sistematicamente la mancanza di personale idoneo a rispondere alle esigenze delle imprese. È, del resto, la stessa Anpal con Unioncamere a riportare mese per mese i dati impressionanti relativi a migliaia di posti di lavoro che restano scoperti per le difficoltà che le imprese incontrano a trovare le persone idonee.

Tra i tanti attori delle politiche attive del lavoro, ministero del Lavoro, regioni, Anpal, Inapp, Direzione generale delle politiche attive, Osservatorio nazionale per il mercato del lavoro, nessuno riesce a spiegare come mai, su tre milioni di disoccupati – di cui 600 mila già ingaggiati dal programma Gol – non si riescano a trovare lavoratori subordinati adatti a ricoprire, eventualmente dopo qualche settimana o mese di formazione o addestramento, i posti disponibili in settori come l’autotrasporto, l’edilizia, il turismo, la meccanica, le Tlc, l’alimentare, il navale, distribuiti in tutte le fasce di professionalità, come mostrano appunto i dati Anpal e Unioncamere.

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  1. Firmin

    Una vecchia e volgare barzelletta concludeva che non mancano le signore “disponibili”, ma i soldi. Lo stesso vale per i lavoratori. Molte offerte di lavoro, infatti, sono puramnete virtuali, perchè la retribuzione non copre i disagi e i costi di trasferimento e soggiorno in aree lontane dalla residenza dei disoccupati. Tagliare i sussidi e far entrare immigrati con poche pretese non risolve il problema. D’altra parte, le imprese piccole ed a gestione familiare che caratterizzano l’economia italiana non sono probabilmnete in grado di offrire di più. Se è così, credo che la politica attiva del lavoro più efficace sia quella di costringere le imprese a consorziarsi per raggiungere dimensioni tali da poter assorbire, formare e retribuire adeguatamnete il personale. Il resto mi sembra inutile burocrazia o ottusa ideologia.

  2. Savino

    Culturalmente, il disoccupato, l’inoccupato o il neo accolto non sono indirizzati verso i cpi come punto di incontro domanda-offerta o punto formativo. Per trovare lavoro ti viene indicato di possedere reti di conoscenze personali ;chi non le ha peggio per lui. Oggi i cpi sono delle Regioni, in gran parte con giunte di destra: tocca a oro attivarli ed attrezzarli.

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