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Per una diversa prova dei mezzi

Con la riforma del Superbonus, cambia il sistema della prova dei mezzi. Da un Isee che tende a penalizzare i possessori di patrimonio, anche se con reddito globalmente modesto, si passerebbe a un indicatore che premia il sommerso. Ma un’alternativa c’è.

I limiti dell’Isee

Il decreto legge “Aiuti-quater” nel riformare il cosiddetto “superbonus per il risparmio energetico” consente la nuova detrazione del 90 per cento entro una soglia massima di “reddito equivalente”. Di fatto, introduce una modifica profonda del sistema fondato sulla prova dei mezzi basata sull’Isee, l’indicatore della “situazione economica” dei nuclei familiari, e ne delinea una molto diversa e per certi aspetti sostanzialmente opposta.

L’Isee vigente ha forti limiti. È opportunamente basato sul concetto di “scala di equivalenza” e il derivato “reddito equivalente”, ovvero un reddito pro capite corretto per tener conto delle economie che si realizzano nelle famiglie. Tuttavia, l’indicatore è stato sganciato dalle misure di reddito o spesa utilizzate per individuare le aree di povertà, di rischio di povertà e, più in generale, di tenore di vita, adottate da Eurostat, Istat, Ocse e dalla maggior parte dei paesi, per sposare un ibrido – un più generico “indicatore di situazione economica” – ottenuto come somma di reddito (compreso quello generato dal patrimonio) e una quota diretta e rilevante del patrimonio stesso (il 20 per cento), in grado da sola di modificare radicalmente la misurazione del reddito equivalente e di sovra-ponderare notevolmente il ruolo giocato del patrimonio. Per cogliere quanto sia ingente – in una logica di quantificazione del solo reddito familiare da rendere poi equivalente – la sovra-ponderazione del reddito da patrimonio che deriva dall’aggiunta del 20 per cento del valore può aiutare un esempio: con un valore patrimoniale complessivo di 200mila euro e un reddito medio da patrimonio pari al 3 per cento (cioè 6mila euro), aggiungere il 20 per cento del valore patrimoniale (40mila euro) equivarrebbe ad aggiungere al reddito da lavoro una quota derivante dal patrimonio di 46mila euro, cioè quasi otto volte il reddito medio effettivo (o figurativo). La sovra-ponderazione, che tende a rendere poco influente l’entità del reddito da lavoro, è anche molto variabile a seconda del mix tra immobili e asset finanziari, a causa dello scarto tra valori catastali e quelli di mercato (il valore della prima casa è calcolato come due terzi del valore catastale al netto di una deduzione di 52.500 euro).

Inoltre, ed è il secondo limite dell’Isee, la costruzione di questa “misura” di tenore di vita è stata associata, come conseguenza di molteplici trattative e pressioni, anche di natura sindacale, agli utilizzi redistributivi che si volevano favorire. Ne è derivata una frequente alterazione di una semplice somma di componenti reddituali o patrimoniali: l’identificazione di ogni componente individuale e poi familiare di cui si compone il processo di calcolo dell’Isee viene modificata con abbattimenti, franchigie, esenzioni che hanno lo scopo di realizzare politiche redistributive all’atto stesso del computo. In sostanza, le politiche desiderate di utilizzo dell’indicatore sono state in qualche modo “nascoste” nel calcolo dell’indicatore stesso, privandoci di un’utilissima misura del tenore di vita, da corredare poi esplicitamente, volta per volta, in sede applicativa con le citate soglie, esenzioni o accentuazioni del beneficio.

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Il reddito equivalente del Dl Aiuti come prova dei mezzi

La bozza del Dl, nel definire la nuova disciplina del superbonus, vincolandone la fruizione al tenore di vita dei nuclei familiari interessati, contiene da questo punto di vista due innovazioni:

  1. definisce la somma dei “redditi complessivi” come misura di redditualità familiare;
  2. introduce una nuova rudimentale scala di equivalenza, come somma di pesi pari a 1 per ciascun coniuge e 0,5 per tutti gli altri componenti.

Questo reddito equivalente, chiamato “quoziente familiare” (alla francese), riserva il beneficio della nuova detrazione del 90 per cento su lavori a risparmio energetico ai soli nuclei con un valore entro i 15mila euro (identico per costruzione per ciascun componente familiare).

Il problema è che il reddito complessivo Irpef è da tempo molto lontano dal considerare tutte le componenti di reddito; anzi, negli ultimi anni si sono assottigliate le tipologie considerate, limitandosi di fatto ai soli redditi da lavoro non soggetti a regimi sostitutivi.

Ne consegue che la misura del tenore di vita, adottata dal nuovo indicatore per selezionare i beneficiari, ignora di fatto le componenti generate dal patrimonio (i redditi immobiliari sono sostanzialmente fuori dal computo del reddito complessivo, mentre quelli finanziari sono esclusi anche formalmente). 

Da un Isee che tende a escludere dai benefici i possessori di patrimonio, anche quando a reddito globalmente modesto, si passerebbe a un reddito complessivo che premia prevalentemente rentier, autonomi evasori e dipendenti in nero. Anche il dato decisamente basso del valore soglia equivalente (15mila euro) per accedervi porterebbe a escludere dal beneficio la gran parte dei lavoratori in chiaro, possessori di immobili e disponibili a investire per una riqualificazione energetica altrimenti troppo onerosa.

A una misura di reddito che ignora il patrimonio posseduto si aggiungerebbe così un ulteriore incentivo a essere sommerso.

Una proposta di reddito equivalente come prova dei mezzi

A parere di chi scrive, questa potrebbe essere l’occasione per correggere gli evidenti limiti del passato, senza sostituirli con altri, altrettanto evidenti, per il futuro, scegliendo un reddito equivalente onnicomprensivo come misura per la prova dei mezzi.

Oltretutto, si potrebbe anche semplificare il sistema:

  1. computando ogni categoria di reddito (lordo se si lascia l’attuale impianto dell’Isee) senza alterazioni (abbattimenti, esenzioni, franchigie) mirate ad agevolare o contrastare specifiche categorie di utilizzatori. Riservando ogni ulteriore criterio agli enti gestori di ogni intervento;
  2. considerando tra le quote reddituali anche quelle derivanti dal possesso di patrimoni immobiliari o finanziari, mediante l’applicazione di un rendimento forfetario (ad esempio, dal 3 al 5 per cento);
  3. adottando una delle scale di equivalenza utilizzate o stimate (fatta eccezione per quella dell’attuale reddito di cittadinanza, palesemente volta solo a risparmiare risorse, generatrice di disparità di trattamento a sfavore dei nuclei più numerosi). Per i motivi già esposti, sarebbe opportuno ricondurre le varie scale di equivalenza oggi adottate a una sola, guidata esclusivamente dal riconoscimento delle economie di scala familiari, essendo la misura del reddito equivalente cosa diversa dal suo utilizzo ai fini delle politiche.
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Dal punto di vista applicativo o amministrativo, questa soluzione sarebbe estremamente semplice da adottare, perché potrebbe essere sufficiente una riforma o revisione dell’Isee.

Basterebbe infatti:

  1. mantenere il computo delle singole fattispecie di reddito personale da lavoro o da patrimonio, depurandole da quelle complicazioni e distorsioni premiali o punitive;
  2. introdurre esplicitamente l’acronimo Isre (indicatore della situazione reddituale equivalente), che nient’altro sarebbe che la somma per famiglia di tutte le componenti reddituali individuali divisa per la relativa scala di equivalenza;
  3. utilizzare l’Isre come valutazione della prova dei mezzi, salvi ulteriori criteri stabiliti di volta in volta a seconda dell’intervento;
  4. preservare quello che oggi è definito Isp, cioè indicatore della situazione patrimoniale familiare, anche qui senza esclusioni e distorsioni, per utilizzarlo quale criterio integrativo nei casi in cui dovesse apparire pertinente e rilevante (ad esempio, per l’assegnazione di appartamenti a condizioni di favore);
  5. confermare o ridefinire la scala di equivalenza, da utilizzare in futuro per tutti i casi di misure “equivalenti” di reddito (in particolare per un riformato reddito di cittadinanza, che oggi penalizza i nuclei con figli).

È facile immaginare che questo approccio sarebbe, per una volta, anche una vera e significativa semplificazione del sistema, più facilmente comprensibile dai cittadini fruitori. Si aggiungerebbe tuttavia a una misurazione del tenore di vita orizzontalmente equa, con una migliore selezione dei fruitori e una migliore allocazione del quantum.

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  1. Savino

    Oggi in concreto si riesce a quantificare la ricchezza solo sulla base del patrimonio, che dovrebbe divenire, a mio avviso, l’unico indicatore. Chi più ha in termini di beni meno ha bisogno di servizi sociali.

  2. Enrico

    L’ISEE nasce dalla incapacità (o dalla mancata volontà) del fisco di misurare le risorse realmente a disposizione di una famiglia. Invece di accertare la reale situazione della famiglia, il fisco trova più comodo “correggere” il reddito dichiarato con una misura dalla ricchezza e con vari espedienti (franchige, coefficienti, scale di equivalenza, ecc.). Questo approccio si basa su parecchi errori. Il primo è che la ricchezza sia solo quella “posseduta” (beni e fondi registrati a proprio nome) e non anche quella “utilizzata” (beni e fondi a disposizione, ma intestati ad altri). Il secondo errore è che la ricchezza “posseduta” si possa nascondere meno del reddito, mentre basta dare un’occhiata a quel disastro che chiamano catasto per convincersi di quanto questa ipotesi sia sbagliata. L’ISEE ipotizza anche che tutti abbiano la stessa propensione ad accumulare ricchezza a parità di reddito effettivo, che è una palese stupidaggine, se non altro perchè la ricchezza, a differenza del reddito, è uno stock che si accumula nel tempo, e quindi con l’età.
    Si dovrebbe riconoscere realisticamente che esistono poveri “ricchi” (con basso reddito effettivo e una ricchezza difficilmente liquidabile o utilizzabile) e ricchi “nullatenenti” (che usano beni e fondi intestati ad altri). Se proprio si vuole discriminare l’erogazione di alcuni servizi e benefit in base alla situazione economica, tanto vale utilizzare il reddito familiare (anche sottodichiarato), eventualmnete corretto con qualche scala di equivalenza, come proposto dagli autori, e sottoporre ad esami fiscali più frequenti ed intrusivi i beneficiari, con la possibilità di irrogare pene molto pesanti, come è stato fatto (forse per la prima volta) per il Reddito di Cittadinanza. Sarebbe un criterio decisamente più semplice, trasparente ed economico di qualsiasi algoritmo per il calcolo dell’ISEE e dei suoi succedanei.

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