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L’Ue continua a dipendere troppo dal carbone

Il carbone è stato per molto tempo la prima fonte di energia in Europa. Le politiche per il clima spingono però verso un suo graduale abbandono. Ma le emissioni da attività carbonifere restano ancora molto alte in Germania e nei paesi dell’Est.

L’utilizzo del carbone in Ue

Secondo i dati diffusi dal Cnel, nel 2021, l’incidenza del carbone sul mix di componenti energetiche che costituiscono il sistema elettrico mondiale è stata del 36 per cento, in crescita del 9 per cento rispetto al 2020. Il carbone costituisce il primo fattore energetico del sistema, seguito dal gas naturale (22,9 per cento) e dal petrolio (2,5 per cento). L’output elettrico mondiale, dunque, dipende per il 61,4 per cento da combustibili fossili. La guerra russo-ucraina e la conseguente crisi energetica non può in alcun modo costituire un “alibi” per abbandonare la transizione energetica europea. Ma i dati Eurostat mostrano che i progressi verso la transizione ecologica sono “lenti, insufficienti a contrastare la tendenza lungo la quale si è avviata l’economia globale negli ultimi decenni” e che non è possibile “individuare nel ricorso generalizzato a misure di arresto della produzione il rimedio per accelerare la transizione ambientale”.

Il carbone è stato per lungo tempo la prima fonte di energia nei paesi europei, con una quota di oltre un terzo negli anni Novanta. Nel 2013, però, c’è stata la prima vera inversione di tendenza, con le energie rinnovabili che hanno superato tutte le altre fonti energetiche, carbone compreso (figura 1). Il carbone costituiva il 39 per cento della produzione di energia elettrica e di calore nel 1990, una quota calata al 14 per cento trent’anni dopo. Al contrario, le rinnovabili da un 11 per cento nel 1990 sono passate a un 38 per cento nel 2020. Ad aumentare è stato anche il gas fossile (+12 pp in trent’anni), mentre in diminuzione il nucleare (-4 pp) e il petrolio (-9 pp).

La diminuzione del carbone e dei suoi derivati è confermata dai dati Eurostat, rielaborati dalla Corte dei conti europea. La produzione Ue di carbon fossile è calata del 77 per cento e quella di lignite del 55 per cento dal 1990 al 2020. Anche il consumo è sceso sensibilmente, passando da 390 milioni di tonnellate nel 1990 a 144 nel 2020. Come si può notare dalla figura 2, in cui sono stati selezionati i paesi maggiori produttori e consumatori di carbone unitamente, la Germania resta “leader” indiscussa in questo campo. In generale, il carbone viene ancora principalmente usato per energia elettrica e riscaldamento (76 per cento nel 2018), mentre solo il 24 per cento è utilizzato dai paesi Ue come materiale nell’industria, prevalentemente siderurgica.

Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, l’Europa rappresenta solo il 5 per cento circa del consumo mondiale di carbone. Per fare un paragone, Cina e India insieme consumano il doppio della quantità di carbone consumata del resto del mondo nel suo complesso, con la Cina che da sola rappresenta più della metà della domanda mondiale. Gli Stati Uniti, invece, si posizionano al terzo posto per consumo nel mondo, con numeri di gran lunga maggiori rispetto all’Europa.

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L’impegno ad abbandonare il carbone

Gli impegni ufficiali diretti all’abbandono del carbone come fonte energetica e di calore risalgono al periodo 2016-2022 (figura 3), durante la definizione delle strategie di transizione energetica, ossia i piani nazionali integrati per l’energia e il clima (Pnec), del periodo 2021-2030. Attraverso i Pnec, gli stati membri Ue hanno sancito le loro intenzioni riguardo l’efficienza energetica, le energie rinnovabili e le emissioni di gas serra. L’ultimo aggiornamento risale al 2019, ma i recenti annunci di buona parte degli stati membri sembrano aver già prefigurato obiettivi più ambiziosi (l’aggiornamento dei Pnec è previsto formalmente entro giugno 2023).

Tuttavia, anche se l’impegno dei paesi è stato esplicito e anche se i dati mostrano un’inversione di tendenza verso il rinnovabile, i numeri restano ancora troppo alti in Germania e in diversi paesi dell’Est Europa, soprattutto alla luce dei fondi forniti dall’Ue.

La situazione nelle regioni carbonifere

Negli scorsi decenni, i paesi europei hanno assicurato un sostegno pubblico – diretto o indiretto – a imprese e organizzazioni che si occupano di estrazione del carbone. Stando alla relazione speciale della Corte dei conti europea, gli stati membri hanno erogato 87 miliardi di euro ai produttori di carbon fossile nell’Unione europea tra il 2000 e il 2012. Un cambio di passo è avvenuto nel 2010, quando il Consiglio europeo ha adottato norme differenti per il settore carbonifero, con lo scopo di agevolare la chiusura di “miniere di carbone non competitive” tra il 2011 e il 2027. Anche per l’introduzione di queste misure, la produzione di carbone nell’Ue si è così concentrata in specifiche regioni, che hanno caratteristiche molto differenti fra loro. In alcuni casi, l’industria carbonifera si estende su un’area geografica ampia – come nella regione delle Asturie, in Spagna, e in quella della Slesia in Polonia. In altri casi, la produzione di carbone si colloca in zone geograficamente più piccole: per esempio, nelle province di Palencia e di León in Spagna e nella micro-regione della valle del Jiu, in Romania.

In alcune di queste regioni, l’industria del carbone spesso è direttamente connessa alla produzione di energia elettrica e termica e “domina l’economia”, mentre in altri territori il carbone fa parte di un panorama industriale più diversificato. Tra l’altro, alcune di queste regioni, grazie alle loro caratteristiche geografiche o socioeconomiche, avrebbero un “considerevole potenziale per lo sfruttamento di fonti energetiche rinnovabili”.

Un altro importante cambio di rotta è avvenuto nel giugno 2021, con l’introduzione del Fondo per una transizione giusta: per la prima volta l’Unione europea ha messo a disposizione un programma di finanziamento specifico per quelle regioni che attualmente producono carbone o che lo hanno prodotto in passato. Per raggiungere gli obiettivi in materia di clima – affrontando le conseguenze delle chiusure delle miniere – gli stati membri e le regioni dell’Ue, oltre che ai finanziamenti nazionali e regionali, hanno potuto accedere alle risorse disponibili da tre diversi fondi strutturali di investimento europeo (fondi Sie):

  • il Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr), con una dotazione di bilancio per il periodo 2014-2020 di 228 miliardi di euro, istituito con l’obiettivo di ridurre le disparità tra regioni migliorando la coesione economica e sociale nell’Unione. Tra i principali settori che ne hanno beneficiato, quello di ricerca e innovazione, l’agenda digitale, le piccole e medie imprese e l’economia a basse emissioni di carbonio;
  • il Fondo sociale europeo (Fse), con una dotazione di bilancio per lo stesso periodo di 100 miliardi di euro, istituito per promuovere un’occupazione sostenibile e di qualità e una mobilità dei lavoratori coinvolti;
  • il Fondo di coesione (Fc), con una dotazione di bilancio (sempre per il periodo 2014-2020) di 61 miliardi di euro per 15 Stati membri, con l’obiettivo di promuovere uno sviluppo sostenibile riducendo disparità economiche e sociali degli stati membri.
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Il costo in termini occupazionali dell’abbandono del carbone

L’aver spinto molto sulla decarbonizzazione, nonostante il rimbalzo esplicitato dai dati 2021 e dovuto alla situazione geopolitica mondiale, ha causato un calo degli occupati nel settore (soprattutto nel periodo 1990-2000). Il Fesr ha contribuito direttamente alla creazione di posti di lavoro alternativi a quelli persi, ma in una percentuale minima, soprattutto se confrontato con il numero totale di disoccupati nelle stesse regioni.

Nella relazione speciale,la Corte dei conti sottolinea come “il sostegno dell’Ue alle regioni carbonifere ha avuto un impatto limitato sulla transizione energetica e che, malgrado i progressi generali, il carbone resta una fonte significativa di emissioni di gas a effetto serra in alcuni stati membri”. Le regioni carbonifere hanno impiegato i fondi dell’Ue in modi diversi, ma spesso “con l’obiettivo di ovviare ai propri bisogni specifici, prestando poca attenzione alla transizione socioeconomica ed energetica” e, nella maggior parte dei casi, i progetti finanziati con i fondi europei non hanno prodotto “un impatto significativo sul risparmio energetico o sulla capacità di produzione di energia da fonti rinnovabili”. Infine, l’istituto avanza critiche anche alla Commissione europea, per non aver svolto “un’analisi completa delle realizzazioni conseguite in queste regioni grazie ai precedenti finanziamenti dell’Ue, né delle necessità ancora da soddisfare”. “Da tali debolezze”, si aggiunge, “emerge il rischio che i fondi intesi a contenere i costi socioeconomici e ambientali della transizione possano essere spesi senza che quest’ultima abbia effettivamente luogo”. Per garantire una transizione efficiente, dunque, occorre monitorare meglio la spesa dei fondi dedicati.

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  1. Rinaldo Sorgenti

    Sarebbe ora che si approfondisse il tema per superare la demagogia dei “luyoghi comuni” che continua a riguardare questo importante argomento. La CO2 NON è certo un inquinante (essendo fondamentale per la vita sul pianeta) e bisognerebbe comprendere che quello che conta sono le tecnologie oggi disponibili per un utilizzo opportuno e davvero sostenibile delle varie Fonti, Carbone compreso che è il combustibile più ampiamente disponibile sul pianeta, affidabile e meno costoso. Poi, in funzione delle caratteristiche di ciascun Paese, sarebbe opportuno un “MIX delle Fonti” per ragioni di:
    – sicurezza strategica Paese;
    – riduzione costi elettricità per consumatori industria e civile;
    – sostegno all’industria manifatturiera Paese.
    L’Italia è il Paese più a rischio e che beneficerebbe molto dall’attuazione di quanto sopra, avendo oggi un “MIX” del tutto asimmetrico e sbilanciato verso Fonti intermittenti e costose.
    Ma occorre davvero approfondire e studiare le cose, senza fuorvianti pregiudizi.

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