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Il lato oscuro della meritocrazia

La meritocrazia reale assomiglia molto a un’aristocrazia ereditaria, come dimostrano i due paesi più meritocratici: Usa e Gran Bretagna. Giustificare le disuguaglianze sulla base di diversissimi livelli di talento e merito è una condanna per la medietà.

Meritocrazia ereditaria?

Definire il merito è difficile, come si è discusso in un altro articolo. Lo si ricollega al talento e allo sforzo, fino a riconoscerlo nell’apprezzamento del mercato, assumendo che tutti abbiano le stesse opportunità.

Il mercato non ha particolarmente a cuore l’uguaglianza (che sia dei punti di partenza o dei punti di arrivo) e neppure l’equità. Ed è ampiamente noto che le società più dichiaratamente “meritocratiche” (USA, Gran Bretagna), oggi, abbiano livelli di disuguaglianza molto elevati, vicini a quelli delle società di inizio Novecento, più fondate sull’aristocrazia del sangue e sulle relazioni che sul merito. Considerato che l’ideale di uguali opportunità è ben lungi dall’essere realizzato, è possibile sostenere che la meritocrazia reale sia molto lontana dal suo ideale (ammesso che fossimo in grado di definirlo sul serio) e assomigli molto a un’aristocrazia ereditaria. I conti di Daniel Markovits (The Meritocracy Trap, 2019) sono, a questo proposito, devastanti. Egli ha provato a calcolare quanto valga, in termini di lascito ereditario, l’investimento che una famiglia dell’élite americana fa per l’istruzione dei propri rampolli. Markovits si è concentrato sulla differenza di spesa tra una tipica famiglia ricca e una tipica famiglia della classe media, ipotizzando che la somma corrispondente alla differenza venga versata, anno dopo anno, in un fondo vincolato ereditabile dai ragazzi alla dipartita dei genitori. Nel frattempo, se investito oculatamente, il fondo darebbe rendimenti a loro volta accumulati. Con qualche ipotesi ragionevole sulla durata della vita dei genitori, sui rendimenti dei fondi e altre variabili, si ottiene che “l’investimento in capitale umano fatto da una tipica famiglia ricca, in eccesso rispetto a quello fatto da famiglie della classe media, è oggi equivalente a un’eredità nei dintorni dei dieci milioni di dollari per ogni ragazzo (o ragazza)”. Una somma enorme che promuove “le ambizioni dinastiche di una famiglia dell’élite” (p. 146). La questione si può guardare anche misurando l’entità dei debiti contratti per completare gli studi universitari. Ai figli dei ricchi gli studi sono pagati dai genitori. I figli dei poveri e dei ceti medi, che decidano di continuare a studiare, invece, si indebitano e cominciano le loro carriere lavorative zavorrati da quei debiti.

Entrare in una università di élite

La crescente disuguaglianza rende massimamente importante chi entra in quale università prestigiosa. Nonostante tutto, in America (il retorico regno della meritocrazia), essere ammessi in una grande università ha più a che fare con il vantaggio del punto di partenza in termini di reddito e ricchezza che con il “merito”, comunque lo si voglia definire. Ne segue che i profumati stipendi (e bonus) ottenuti dai laureati delle grandi “scuole” sono ancora oggi più dovuti alle “dispari” opportunità garantite dalla posizione economica e sociale della famiglia di origine che al merito individuale. Dopo svariati decenni di meritocrazia, oggi oltre il 70 per cento degli studenti che frequentano i cento college più competitivi (e costosi) d’America proviene dal quarto più alto della scala dei redditi; solo il 3 per cento dal quarto più basso. Se la tua famiglia fa parte del “top 1 per cento” dei redditieri hai una probabilità 77 volte superiore di entrare in un college dell’Ivy League di un tuo coetaneo la cui famiglia faccia parte del 20 per cento più povero. Proprio come diceva Tony Atkinson (Disuguaglianza. Che cosa si può fare?, 2015), la disuguaglianza dei punti di arrivo si trasforma in disuguaglianza dei punti di partenza della generazione successiva e così via ereditando. Il supposto “merito” finisce per essere una giustificazione zoppa di una realtà assai più brutale.

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E poi: siamo sicuri che l’aver frequentato con successo le migliori università del mondo dia automaticamente a un individuo la patente di “meritevole”? Di nuovo, tale patente dipende dalla definizione che diamo di merito. Se, per esempio guardiamo all’insieme di virtù civiche e saggezza pratica che, secondo Aristotele, rende un individuo “meritevole” di governare la “polis”, perseguendo il bene comune, non possiamo essere certi dell’equipollenza tra merito e laurea a Harvard, Yale, Oxford o Cambridge, come la Storia si è peraltro incaricata di ricordarci più volte.

Il lato oscuro della meritocrazia

Il lato oscuro della meritocrazia, da un punto di vista morale, è così riassunto da Michael Sandel: “il principio che il sistema premia il talento e il duro lavoro incoraggia i vincitori a considerare il proprio successo quale frutto delle proprie azioni, una misura della propria virtù e a guardare dall’alto in basso chi è meno fortunato di loro. L’arroganza meritocratica riflette la tendenza dei vincitori a inebriarsi troppo del proprio successo, a dimenticare la fortuna e la buona sorte che li ha aiutati sul cammino” (Sandel, 2020, p. 25, anche p. 123). Riservare elevata considerazione sociale (e giustificare le disuguaglianze) sulla base di diversissimi livelli di talento e merito è un modo di umiliare non solo i poveri ma anche chi sta a metà della scala e non riesce a salire. È una condanna per la medietà.

Come ha scritto papa Francesco, “La meritocrazia affascina molto perché usa una parola bella: il “merito”; ma siccome la strumentalizza e la usa in modo ideologico, la snatura e perverte. La meritocrazia, al di là della buona fede dei tanti che la invocano, sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza. Il nuovo capitalismo tramite la meritocrazia dà una veste morale alla diseguaglianza”. Ma se una “società buona” è quella priva di grandi diseguaglianze, allora la caratterizzazione di ciò che è meritorio deve valutare se le azioni (per non dire le persone) candidate a essere considerate meritevoli generino più o meno disuguaglianze (Sen, 2000). Così, però, il merito perderebbe il suo ruolo di giustificazione delle disuguaglianze esistenti, ma perderebbe anche la base su cui viene oggi misurato.

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Le molte storture della meritocrazia “reale”, cioè realizzata, sono riconosciute anche da un entusiasta propugnatore del merito qual è Adrian Woolridge (The Aristocracy of Talent, 2022). Non appare appropriato rispondere alle storture argomentando come la meritocrazia “ideale” – essenzialmente ridotta a un confronto sulle competenze specifiche o sui meriti “non morali” – ne sia priva (Marco Santambrogio, Il complotto contro il merito, 2021), oppure dicendo che, pur con tutti i suoi difetti, la meritocrazia è il meglio che ci sia (così fa proprio Woolridge). Questi atteggiamenti somigliano molto, rispettivamente, a quelli di chi oppone ai difetti del mercato la constatazione, piuttosto ovvia, che in un mercato perfetto quei difetti non ci sono o a quelli di chi sostiene che i fallimenti dello stato possono essere ben più grandi di quelli del mercato e che quindi lasciare quest’ultimo a se stesso è, in definitiva, il minore dei mali.

Andrea Boitani è intervenuto all’evento organizzato all’interno del Festival Internazionale dell’Economia di Torino intitolato “Infermieri e top manager: chi ha più merito?”, che si è tenuto giovedì 2 giugno alle 16.30 all’Accademia delle Scienze – Sala dei mappamondi.

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Il merito, il mercato e la giustizia

  1. Lorenzo

    Come dire che siamo fra l’incudine delle baronìe e il martello del GF di Canale5

  2. Savino

    La meritocrazia è una legittimazione etica all’uguaglianza quando abbraccia un percorso più vasto che comincia dal punto di partenza e dall’accessibilità all’aspettativa di una vita migliore per tutti. In questo senso, che è anche quello della Costituzione, una società più è meritocratica più è equa. L’elite è il prodotto della meritocrazia che seleziona i più bravi e capaci quindi anche quelli che sanno fare le scelte migliori per il bene comune. Le elites possono anche arrivare dal basso se viene seguito il percorso indicato; essere i migliori non significa essere i più ricchi o i più potenti e prepotenti, anzi la scelta dei migliori è una lezione di umiltà antitodo alla prepotenza

  3. Fabrizio Fabi

    Giuste e interessanti considerazioni, i calcoli di Markovits andrebbero replicati sull’Italia, ovviamente inserendo anche la spesa di istruzione da parte della collettività. La mia impressione è che da noi le robuste reti di relazioni familari, amicali, corporative, ecc. (“familismo amorale”) attenuino il gap fra classe ricca e classe media, (ma non con la povera, priva di relazioni). Ma temo che da noi la situazione venga aggravata dall’inefficienza grave delle strutture scolastiche e universitarie pubbliche, con grande dilapidazione, quindi , delle risorse che la collettività destina a favorire l’emergere del merito al di fuori deile classi già privilegiate.

  4. Luigi Calabrone

    Gentile prof. Boitani,

    abbia pazienza se ritorno sull’argomento “merito”. Me ne ha dato l’occasione la pubblicazione del secondo articolo, dedicato al contesto cui si applicano le sue considerazioni, quello anglosassone. Negli USA (e UK) l’istruzione “di qualità” è in mano ai privati, con spese anche enormi negli USA per le famiglie e persino manipolazioni/truffe, da parte dei genitori, per far iscrivere i rampolli (di “poco merito”) nelle università migliori – quelle che consentiranno loro di conseguire i migliori posti di lavoro e più alte retribuzioni. Di qui, come lei ci informa, il carattere di “investimento” insito in queste iscrizioni pilotate, anche disonestamente.

    Ma risulta evidente che non di merito stiamo parlando, ma di situazioni di privilegio, spesso abusi, fondate sulla ricchezza/potere, anche male conseguiti, delle famiglie degli studenti. Gli autori che lei cita hanno scoperchiato la pentola puzzolente ed esaminato il contenuto velenoso.

    Vorrei che lei avesse fatto precedere ai suoi articoli una specie di “caveat” o “disclaimer”:

    “questo mio articolo non si applica alla situazione italiana, i cui l’applicazionedel sistema del “merito” (ancorché previsto dalla Costituzione) viene accuratamente evitata. In Italia al merito si preferiscono il familismo amorale, l’affiliazione corporativa, i concorsi truccati/improvvisati, l’appiattimento ugualitario, l’attribuzione in massa di diplomi e certificati di studio di carta, senza alcuna verifica dell’effettivo merito dei discenti. ”

    “la voce.info” è una rivista ben fatta, aggiornata; gode di un giusto prestigio – io la leggo regolarmente. Viene saccheggiata da molti giornalisti. Dopo la pubblicazione di un numero (anche prima, per “fughe di notizie”) gli stessi argomenti vengono ripresi su importanti giornali (per es. il Corriere della sera). Ma da giornalisti spesso improvvisati, che li travisano anche perché, per fretta, ignoranza o “altro deplorevole motivo”, non ne capiscono il contesto.

    Non vorrei che sulla materia “merito” si ripetesse quello che già avvenne per la scuola molti decenni orsono. C’era un pedagogista, un maestro eroico, don Milani. Scrisse delle sue esperienze maturate nel retroterra miserabile e culturalmente arretrato delle colline attorno a Firenze, dove sulla sua pelle fece quanto era possibile per consentire ai suoi poverissimi allievi di elevare il proprio livello socioculturale. Faceva riferimento all’”istruzione dell’obbligo” – quella che anche lo Stato era obbligato a fornire, e non forniva, lasciandoli indietro. Dopo la sua morte (ad evitare possibili smentite) il suo messaggio: “istruire, istruire, istruire,” fu completamente e in mala fede travisato nel “promuovere, promuovere, promuovere”, anche per i livelli superiori di istruzione e per le scuole che avrebbero dovuto accertare il possesso di requisiti professionali (minimo, il saper leggere e scrivere, conoscere le parole, capire ciò che si legge). Di cedimento in cedimento, di promozione in promozione, di emissione di abilitazioni false, siamo arrivati ai laureati in legge analfabeti, di cui all’ultimo concorso per la magistratura.

    Se ora “la voce.info” scrive sul “merito”, smontandone alcuni meccanismi perversi esistenti nei paesi anglosassoni, ma non applicabili alla situazione presente oggi in Italia, non vorrei che succedesse come per le promozioni finte concesse nel nome del povero don Milani. Il “merito”, parola chiave che si presta a diventare slogan, diventerebbe parola impronunciabile – ora è solo un fantasma che si aggira per l’Italia, ma che non desta alcuna preoccupazione, proprio perché fantasma rimane.

    Già ho letto sul Corriere un paio di articoli che mi preoccupano ….

    • Andrea Boitani

      Grazie del commento accorato e partecipe. Chiunque mi conosca un po’, sa che sono tra i docenti più selettivi della mia università. Nella mia facoltà esistono criteri di ammissione basati sulle competenze sia al corso di laurea triennale che a quelli magistrali, da me intensamente sostenuti e ottenuti con qualche battaglia. Questo è, secondo me, premiare il merito. Il resto è retorica che copre malamente il bisogno e il desiderio di dare veste morale alle disuguaglianze. Anche se non mi pare assolutamente il suo caso. Lei si preoccupa, giustamente, del familismo amorale. Le farei notare che questo, però, non è assente in alcuni paesi che si proclamano meritocratici, come gli USA, almeno stando alle testimonianze di Markovits, Sandel e dello stesso Woolridge (quest’ultimo un sostenitore a spada tratta della meritocrazia, pur riconoscendone onestamente il lato oscuro).

  5. Giorgio de Varda

    Ho apprezzato l’articolo perché dal mio punto di vista di studioso del ragionamento logico evidenzia bene e in maniera anticonformistica lo spazio o il campo in cui la funzione meritocrazia è positiva da quello invece dove non lo è più. Passando a un esempio concreto che conosco bene, ossia il mio caso, non penso di avere alcun merito ma solo una grande fortuna per avere avuto un padre, che a sua volta per sua fortuna, ha potuto vivere e trasmettermi esperienze in anticipo sui tempi, almeno quelli italiani. Visto che stiamo discutendo su “La Voce”, mio padre nel1929 a New York, nella Casa della cultura Italiana, aveva potuto conoscere e apprezzare Giuseppe Prezzolini (al tempo direttore della stessa), di cui è rimasto amico per tutta la vita. Prezzolini, come è noto, è stato il fondatore della importantissima rivista “La Voce” nel 1908 con cui credo che il nostro giornale di oggi abbia una grande contiguità, almeno di libertà di idee

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