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Quanto incide il prezzo del gas sulla bolletta elettrica

Il costante aumento del prezzo del gas si riversa su quello dell’energia elettrica. Un’analisi per fonti di produzione, termoelettrica o rinnovabile, mostra anche la notevole crescita dei margini di profitto. E suggerisce di utilizzarli per investimenti.

L’aumento dei prezzi del gas e delle bollette dell’energia elettrica: quale legame?

Il prezzo del gas naturale ha iniziato una costante crescita nel corso del 2021, passando dai 18 euro per MWh di marzo ai 116 euro per MWh di dicembre 2021. L’incremento ha avuto un riflesso importante sui prezzi dell’energia elettrica che, nello stesso anno, sono aumentati dai 62 euro per MWh di marzo ai 293 euro per MWh di dicembre. Paragonando il prezzo degli ultimi tre mesi del 2021 con la media di ottobre, novembre e dicembre dei precedenti tre anni (2018, 2019, 2020) il prezzo dell’elettricità ha subito una variazione del +336 per cento passando da 57 €/MWh a 250 €/MWh.

Anche sulla base di questi fatti, il governo ha varato diversi provvedimenti di sostegno alle imprese e alle famiglie. Per la copertura, ha adottato due misure che sono state assimilate a delle tasse sugli extraprofitti: il decreto energia (DL 17/2022) contiene una sorta di tetto ai ricavi degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, mentre il Consiglio dei Ministri del 18 marzo ha introdotto un ulteriore prelievo straordinario sulle compagnie energetiche. Si tratta di interventi complessi su cui noi stessi abbiamo opinioni differenti. Ma insistono su un indubbio incremento della spesa energetica nazionale: quanta parte di essa corrisponde alla mera copertura dei maggiori costi delle commodity e quanta deriva da altre dinamiche? Proviamo a stimarlo distinguendo tra l’energia elettrica prodotta dal gas e quella di origine rinnovabile nel 2021: assieme rappresentano il 78 per cento della produzione di energia nazionale.

Un’analisi per fonti di produzione

Per farlo, consideriamo la differenza tra i prezzi di mercato dell’elettricità e i costi degli input delle principali tecnologie (detta rendita inframarginale). Nel caso degli impianti termoelettrici a gas, i costi degli input sono dati dal gas (moltiplicato per un fattore che tiene conto dell’efficienza di conversione degli impianti) e dai permessi di emissione per la CO2. Nel caso delle rinnovabili, poiché i costi variabili sono circa zero, la rendita inframarginale coincide col prezzo dell’elettricità. Per tener conto della variabilità dei prezzi e dei volumi dell’elettricità calcoliamo il prezzo medio mensile in due passaggi: prima conteggiamo il prezzo medio giornaliero utilizzando i prezzi orari ponderati per i volumi orari, successivamente calcoliamo le medie mensili utilizzando i prezzi giornalieri ponderati per i volumi giornalieri. Allo stesso modo, i prezzi mensili del gas e dell’anidride carbonica sono calcolati come medie dei prezzi giornalieri ponderati per i volumi giornalieri.

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Per stimare i margini dell’energia elettrica prodotta da gas assumiamo che il 30 per cento del gas sia acquistato sui mercati spot, ossia con il prezzo del giorno, mentre il 70 per cento sia legato a contratti a lungo termine. Si tratta di un’ipotesi conservativa perché i contratti a lungo termine coprono circa l’80 per cento delle importazioni totali di gas nel nostro paese.  Per questi ultimi, a puro scopo esemplificativo, abbiamo utilizzato i prezzi indicizzati ai prezzi del gas (utilizzando la media mobile degli ultimi sei mesi), che è il metodo di prezzo prevalente nella composizione delle vendite da parte di Gazprom nel 2020. Anche questa è un’ipotesi conservativa perché almeno una parte dei contratti a lungo termine (specialmente quelli dal Nordafrica) sembrano essere indicizzati a un paniere di greggi.

Confrontiamo i margini nel 2019 con quelli del 2021. Evitiamo un confronto con il 2020, che è fortemente influenzato dall’inizio della pandemia nel nostro paese. Complessivamente, nel 2019 la rendita inframarginale dagli impianti a gas può essere stimata in circa 1,37 miliardi di euro, di cui 500 milioni legati agli acquisti spot di gas e 870 milioni dagli acquisti a lungo termine.

Nel 2021, lo stesso settore ha ottenuto rendite inframarginali per 6,42 miliardi, di cui 4,2 miliardi concentrati negli ultimi quattro mesi dell’anno. In particolare, sull’energia prodotta a partire da gas acquistato spot la rendita è stimabile in circa 650 milioni, mentre sugli acquisti a lungo termine il margine è di 5,77 miliardi. Quindi è evidente come i contratti a lungo termine hanno consentito di ampliare i margini a dismisura, con un incremento dell’ordine del 500 per cento: il motivo è dovuto al fatto che le imprese produttrici di energia elettrica hanno venduto elettricità ad un prezzo che riflette l’incremento del prezzo spot del gas, ma allo stesso tempo il gas utilizzato è stato comprato a prezzi molto più bassi stabiliti con contratti a lungo termine.

Un ragionamento simile può essere fatto per le fonti di energia rinnovabile. Nel 2019 il margine complessivo era pari a 6,11 miliardi. Nel 2021 è di 14 miliardi. In questo caso, l’incremento è pari al 129 per cento. Ed è dovuto al fatto che chi produce energia elettrica con energie rinnovabili fruisce dell’incremento del prezzo di mercato, ma non sopporta i costi dell’incremento del gas.

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Alla luce di questi risultati, i produttori di energia elettrica sembrano avere incassato nel 2021 quasi 13 miliardi in più rispetto al 2019, a parità di energia prodotta. In realtà tale valore va inteso come un limite superiore: infatti non tutta l’energia viene rivenduta a prezzi spot. Sappiamo che circa un quarto delle transazioni avvengono fuori borsa. Inoltre, molti contratti retail, sia verso clienti domestici sia industriali, sono a prezzo bloccato. Pertanto, i produttori non incamerano integralmente l’extra-rendita, ma, anche assumendo che circa un terzo vada a beneficio dei clienti, il margine complessivo eccede di 8,6 miliardi quello del 2019.

Di fronte a dati così clamorosi è comprensibile che il governo sia voluto intervenire. Ciascun intervento ha pro e contro, che ovviamente vanno ben valutati. Tuttavia, visto che la causa dell’aumento dei prezzi dell’energia sembra essere dovuta a una restrizione dell’offerta, sarebbe sicuramente opportuno individuare misure per indurre i beneficiari degli “extraprofitti” ad aumentare e accelerare gli investimenti per adeguare l’offerta di energia (rinnovabile e non) alla domanda e consentire il ritorno dei prezzi a livelli “normali”.

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  1. paolo

    L’analisi è molto interessante e giustifica la mano pesante del governo (anche se bisogna dire che la “rendita inframarginale” delle fonti rinnovabili serve a pagare gli interessi sul capitale, più che il bassissimo O&M, resta il fatto che la differenza con gli anni precedenti è ingente).
    Giganteggia sullo sfondo però il problema della formazione del prezzo di borsa come prezzo marginale più alto (l’ultimo e più caro impianto accettato in ogni ora e ogni zona fissa il prezzo di tutti gli altri): poichè la curva di domanda è rigida, e quella di offerta alquanto ripida, in molte ore un piccolo (rispetto al totale) aumento della produzione da fonti non-gas (alla peggio, anche da carbone) potrebbe far uscire dal prezzo orario gli impianti più costosi e determinare un beneficio ingente, per via del meccanismo del prezzo marginale.
    E’ un suggerimento per una ricerca, i dati quantitativi dovrebbero essere tutti disponibili presso il GME: ricostruendo le offerte orarie e la produzione oraria prevista si potrebbe calcolare l’impatto di ogni GWh in più prodotto, e dimensionare un piano di intervento mirato: per zona e per fonte.
    Ad es. viene da pensare che obbligando (in fin dei conti siamo pur sempre in guerra, sono tutti concessionari di beni pubblici) i grandi impianti idroelettrici a produrre in determinate ore del giorno (quelle di salita della rampa serale, oggi coperta dai termoelettrici tramite specifiche agevolazioni da pagare in bolletta) e ad accumulare in altre, si potrebbe ottenere una significativa riduzione del prezzo dell’elettricità in diverse fasce orarie.
    Così il governo invece di limitarsi a tratteggiare incrementi globali (peraltro irrealistici) delle fonti rinnovabili, potrebbe orientare gli incentivi sistematicamente (ripetendo l’analisi ad ogni asta), verso l’uso più efficiente per il sistema.

  2. nicola

    Non capisco perché per l’acquisto di gas si supponga un acquisto a prezzo fisso e per la vendita di energia solamente vendita a prezzi spot, senza considerare che molti consumi di imprese e famiglie sono invece a prezzi fissati almeno annualmente.
    Inoltre da questo ragionamento si tiene fuori il 2020, dove probabilmente si avrebbero margini molto più bassi che nel 2019, direi vicini allo 0, se non negativi.
    Il 2020 è stato sicuramente un periodo fuori dal normale, ma allo stesso modo la speranza è che anche questo periodo stia vedendo prezzi energetici fuori dal normale.

  3. Giuseppe

    Integrando quanto affermato da Nicola, vorrei suggerire di considerare che il PUN era stato per molti anni molto inferiore alle previsioni alla base degli investimenti nelle rinnovabili – tipicamente finanziati a tasso fisso e quindi non in credo di beneficiare interamente del parallelo calo dei tassi. Inoltre, a parità di altre condizioni, se c’è un beneficio legato alla differente dinamica dei prezzi di vendita – legati al mercato spot – e dei costi di acquisto – la media mobile a 6 mesi di Gazprom – questo effetto non è permanente, salva l’ipotesi di prezzi continuamente crescenti senza fine, ma è al più temporaneo nell’ipotesi di prezzi alti e costanti in futuro e diventerà negativo quando (se) i prezzi spot ritorneranno a valori normali di lungo periodo. Alla politica, che deve fare i conti con il consenso oggi questo può non interessare, ma l’analista economico non può non tenerne conto.

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