Visto da vicino, il lavoro su piattaforma si discosta dalla narrazione di un processo produttivo capace di creare una libera economia della condivisione. Semmai si caratterizza come un modello di produzione controllato e che genera precarietà.

Il lavoro su piattaforma

Cresciuto negli ultimi anni, in particolare nella fase pandemica, il lavoro su piattaforma sta assumendo una rilevanza che merita un quadro analitico complessivo.

In un recente contributo, abbiamo analizzato il lavoro su piattaforma tramite i dati provenienti da un modulo specifico contenuto nel questionario dell’indagine Inapp-Plus, condotta con tecnica Cati nel 2021 su un campione di 45 mila individui estratti dalle liste telefoniche.

Si stima che i cosiddetti platform worker siano 570.521, il 26 per cento di chi guadagna tramite internet. Il 72 per cento di loro si considera occupato (per 274mila di loro quella con le piattaforme è l’attività principale e per 139 mila quella secondaria), mentre il 27 per cento si auto-dichiara disoccupato o inattivo e lavora, quindi, solo occasionalmente.

La stima differisce da quella presentata da Inps e Fondazione Debenedetti sia per il periodo di riferimento e la dimensione campionaria, che per la tecnica d’indagine utilizzata. Nel caso dell’indagine Inps e FRDB, si fa riferimento a una web survey a pagamento sul lavoro autonomo in generale (con un focus sulla gig economy) condotta nel 2018 su un campione di 15 mila individui dai 18 ai 64 anni. 

Le attività lavorative svolte tramite platform work sono di diversa natura (Figura 1) e vanno dalla consegna di prodotti o pasti, allo svolgimento di compiti on line (traduzioni, programmi informatici, riconoscimento immagini). Volendo riclassificare le piattaforme di lavoro digitali, tra le varie tassonomie, si adotta qui quella dicotomica proposta da Ilo, che distingue tra le web-based platforms (che prevedono lo svolgimento di micro-compiti eseguiti completamente on line) e le location-based platforms (in cui i compiti assegnati – come la consegna di cibo o prodotti – vengono svolti in una località specifica). A lavorare unicamente sul web è il 35 per cento dei platform workers, a dimostrazione dell’affermarsi del lavoro su piattaforma completamente on line, un lavoro poco visibile e tracciabile, che però sta assumendo una consistenza simile a quella dei rider (36 per cento).

I rapporti di lavoro

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Come sono regolati i rapporti di lavoro nelle piattaforme? Circa il 69 per cento dichiara di avere un contratto scritto, e la quota sale tra chi lavora con piattaforme location based (75 per cento). Più invisibile dal punto di vista contrattuale è invece chi lavora con le piattaforme web-based (solo il 58 per cento ha un contratto), spesso localizzate anche al di fuori del territorio nazionale (Figura 2). La collaborazione o il lavoro autonomo occasionale sono le forme contrattuali più diffuse. Invece, tra i lavoratori delle piattaforme location based è più presente il lavoro dipendente.

Decisamente interessante osservare anche le modalità organizzative con cui viene declinata la relazione tra lavoratori e piattaforme. Sette lavoratori su dieci, prima di iniziare a lavorare, hanno dovuto sottoporsi a un test o svolgere una prova (otto se si tratta di lavoratori per una piattaforma location-based). Circa il 75 per cento gestisce direttamente l’account per accedere alla piattaforma e, anche in questo caso, la quota di gestione diretta sale soprattutto tra i location-based. Dunque, esiste un 25 per cento di lavoratori che non gestisce direttamente il proprio account; si tratta certo di una quota minoritaria, ma che apre spiragli di riflessione facendo presupporre situazioni di scarsa autonomia, se non addirittura di “caporalato digitale”. 

Riguardo i parametri definiti per stabilire i compensi, i lavoratori risultano equamente distribuiti tra coloro che vengono pagati sulla base delle sole consegne o incarichi (cottimo) e coloro per cui il riferimento è invece l’orario di lavoro.

Chi paga i compensi? Nella maggior parte dei casi la prestazione viene pagata del cliente finale (soprattutto se si tratta di prestazioni web-based). Per il 34 per cento dei lavoratori, invece, i compensi sono erogati dalla piattaforma stessa. Tuttavia, il 13 per cento dei pagamenti non è gestito direttamente dal lavoratore, ma da un soggetto “altro” che non effettua la prestazione ma attiva unicamente l’account, riceve il pagamento e ne rigira solo una parte al lavoratore che di fatto ha eseguito i compiti o le consegne, facendo intravedere, anche qui, potenziali fenomeni di “caporalato digitale”.

Osservando i criteri per la valutazione della prestazione, quello più diffuso (Figura 4) è il numero di incarichi portati a termine (61 per cento per location-based e 55 per cento per web-based), seguito dal giudizio dei clienti. E a una valutazione negativa della prestazione per 4 lavoratori su 10 si determina la riduzione degli incarichi più redditizi, soprattutto per i web-based (Figura 5). Per i lavoratori location-based, invece, a una valutazione negativa può corrispondere sia la riduzione degli incarichi più redditizi (36 per cento), sia la riduzione complessiva del numero di incarichi (32 per cento). Inoltre, per il 4,3 per cento dei lavoratori si arriva al mancato pagamento della prestazione svolta, e per circa il 3 per cento addirittura alla disconnessione forzata dalla piattaforma, una sorta di licenziamento occulto.

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In riferimento ai guadagni del lavoro su piattaforma, emerge come l’80 per cento dei platform workers ritenga questa entrata “importante” o “essenziale” (Figura 6).

Per molti è l’attività principale

A conferma del fatto che il lavoro in piattaforma non è più un “lavoretto”, vi anche è il fatto che circa la metà dei lavoratori dichiara di non aver avuto alternative occupazionali (Figura 7). Poco più di un terzo degli intervistati, invece, dichiara di aver scelto questo tipo di attività per avere maggiore autonomia nel lavoro.

Il lavoro su piattaforma si discosta quindi dalla narrazione di un processo produttivo capace di creare una libera economia della condivisione e, semmai, si caratterizza come un modello di produzione controllato, che determina precarietà. Per sciogliere il nodo gordiano dello status occupazionale dei lavoratori coinvolti, appare fondamentale l’azione della Commissione europea, che edifica un framework di regole sovranazionali senza più attardarsi nella ricerca di nuove fattispecie di lavoro autonomo, ma determinando un immediato inquadramento contrattuale (subordinato o autonomo) basandosi sull’approccio “primacy of fact”.

*Le opinioni espresse sono personali e non rappresentano necessariamente quelle dell’Istituto di appartenenza.

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