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Una sentenza dalla parte dei concessionari

La sentenza della Consulta sugli investimenti nei settori regolati applica il concetto di libertà di impresa in un ambito improprio. Crescerà così il perimetro delle aziende costruttrici che operano “in house”. Il contrario di quello che si dovrebbe fare.

La sentenza della Corte costituzionale

Una recente sentenza della Corte costituzionale stabilisce che i concessionari autostradali e quelli che gestiscono reti (energia, acqua e poste) siano troppo penalizzati dall’obbligo di mettere in gara a società terze l’80 per cento (il 60 per cento per le concessioni autostradali) dei lavori inerenti alla concessione stessa. Queste percentuali erano previste dalla disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, e dall’articolo 177, comma 1, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), ora cancellato con la sentenza n. 218 del 5 ottobre scorso.

Le utility dei servizi (A2A è un ricorrente) e i gestori delle autostrade (l’Aiscat che le rappresenta tutte è un altro ricorrente) da sempre lamentavano come troppo vincolante l’obbligo di dover esternalizzare, mediante affidamenti a terzi con procedura di evidenza pubblica, quelle percentuali (relative a lavori di importo pari o superiore a 150.000 euro) e di realizzare solo la restante parte tramite società “in house” o società controllate.

Le motivazioni della sentenza, tuttavia, lasciano molto perplessi, perché, riferendosi ai concessionari, sembrano appoggiarsi al concetto costituzionale di “libertà di impresa”. Sembrano però ignorare il contesto a cui applicano il concetto, che non è in alcun modo paragonabile a un libero mercato, in cui valga il gioco della domanda e dell’offerta, i conseguenti rischi di impresa e i “segnali di prezzo” che possano determinare l’efficienza degli investimenti: il mercato di riferimento delle imprese regolate è in larga misura determinato da decisioni pubbliche, anche nella sfera tariffaria, e a volte da Autorità dedicate, quali quelle dei trasporti e dell’energia.

Ne consegue che lo spazio di libertà reale per gli investimenti dei concessionari sembra molto ridotto e soprattutto sono ridotti i rischi relativi, senza i quali la libertà di impresa non può essere invocata. Anche le caratteristiche tecniche dei singoli investimenti sono spesso strettamente normate, come sono normati i profitti mediante appositi “mark up”, generalmente basati sul costo-opportunità del capitale impiegato (Wacc).

I profitti inoltre devono essere basati su una stima di “costi efficienti” degli investimenti stessi, verificati dal concedente/regolatore, nel caso non sia la concorrenza a determinarne l’efficienza. È evidente, infatti, che il soggetto pubblico concedente/regolatore non può consentire che un investimento che presenti extracosti sia pagato dagli utenti o dai contribuenti mediante trasferimenti pubblici.

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Le conseguenze

In pratica, il provvedimento farà crescere il perimetro delle aziende costruttrici che operano “in house”, cioè al di fuori dei mercati “normali” dei diversi settori. È un fatto molto negativo, perché aumenta indebitamente il “clout regolatorio” dei concessionari, cioè la loro capacità di pressione, anche politica, sia sul regolatore che sul concedente pubblico (a questo proposito, la sentenza sembra anche ignorare la distinzione di ruolo tra i due soggetti, svalutando indirettamente quello dei regolatori indipendenti).

È la stessa questione regolatoria nota come Rab (Regulatory Asset Base): devono essere oggetto di regolazione solo le attività specificamente attinenti al ruolo del regolato (per esempio, gestire in modo efficiente un servizio idrico), proprio al fine di mantenere aperto alla competizione ciò che può esserlo, cioè ciò che non sia monopolio naturale o legale.

Un segnale implicito ma eloquente: i concessionari premono sempre per massimizzare gli investimenti che possono fare “in house”, a riprova del fatto che tali investimenti generano profitti sostanzialmente garantiti. Se il perimetro di questi investimenti si amplia, continueranno a premere per effettuarne il massimo possibile (anche quelli non socialmente necessari, per esempio creando eccessi di capacità). A meno che la remunerazione dell’investimento sia soggetta a un reale “rischio di domanda”, scenario che non si può escludere, ma che appare in generale irrealistico.

Si pensi per esempio alle riparazioni, spesso onerosissime, necessarie per una rete idrica: è evidente che i rischi di domanda sono remoti (un calo improvviso della popolazione?). E per le autostrade spesso la remunerazione degli investimenti è del tipo “a piè di lista”, cioè lascia al concessionario solo i rischi industriali (extracosti), non quelli di domanda. Ma se anche vi fossero rischi reali connessi alla domanda, vi sono in genere meccanismi di riaggiustamento della redditività complessiva della concessione che li minimizzano.

Si può obiettare che il concedente/regolatore, così come è chiamato a impedire fenomeni di “gold plating” (eccesso di costi unitari degli investimenti), impedirà anche eccessi di capacità. Ma qui interviene proprio il rischio di “clout politico”: per esempio, il regolato minaccerà di chiudere o di ridurre drasticamente il personale delle imprese “in house” e ovviamente il sindacato e gli enti locali premeranno perché ciò non avvenga.

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Più in generale c’è da osservare la debolezza dei concedenti e dei regolatori nel nostro paese, che consiglierebbe comunque di non aumentarne troppo i compiti, e cioè di lasciare alla concorrenza tutto ciò che è ragionevole lasciare.

Questi soggetti si sono spesso dimostrati distratti e generosi nel definire il tasso di interesse garantito ai concessionari, per le verifiche ai dovuti livelli di manutenzione (si pensi in particolare al caso delle reti idriche e autostradali), nel promuovere una adeguata innovazione tecnologica o, ancora, nell’evitare il costituirsi di imprese dominanti ope legis (molto meno accettabili di quelle che si formano in mercati concorrenziali grazie alla capacità di innovare).

E il crescere di imprese protette (appunto quelle “in house”) ridurrebbe la competizione anche nei loro settori, diciamo così, “di provenienza”. Anche questa è una conseguenza che appare indesiderabile: alcune imprese regolate potrebbero raggiungere dimensioni tali da costituire imprese “in house” dominanti, o praticare “sussidi incrociati” difficili da controllare.

La strada da percorrere sembra dunque tendenzialmente quella opposta: aumentare la concorrenza, soprattutto in quei settori in cui opera troppo poco, quali per esempio le grandi opere civili (di nuovo ci si riferisce alle autostrade).

Infine, c’è da segnalare l’incentivo perverso a ridurre la concorrenza costituito dall’abbondanza di risorse legata al Piano nazionale di ripresa e resilienza: Dio non voglia che dal libero mercato emergano imprese più dinamiche ed efficienti di quelle italiane, capaci di aggiudicarsi (a beneficio degli utenti) una quota di quelle risorse che le nostre imprese regolate vedono già come acquisite.

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  1. Federico Leva

    D’altro canto si può sostenere che ci sia una coerenza nella giustificazione della sentenza (che non ho letto, mi fido della sintesi di cui sopra): se affidi un monopolio naturale a una SpA, per dire che è gestito privatamente, non puoi trattarlo come se fosse parte della pubblica amministrazione. Se vuoi gestirlo come un ente pubblico, rendilo tale.

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