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Non è più tempo di sussidi alle fonti fossili

In vista della Cop 26 di Glasgow si moltiplicano gli appelli per interventi decisi contro il cambiamento climatico. Proprio per questo non è il momento di concedere sussidi alle fonti fossili, anche quando sono temporanei e motivati da buone intenzioni.

Crescono i prezzi dell’energia

L’aumento dei prezzi dell’energia allarma governi e cittadini di mezzo mondo. Il maggiore costo dei carburanti e l’aumento della bolletta elettrica e del gas hanno provocato scompiglio in molti paesi europei, tra cui l’Italia e il Regno Unito. 

Se si dovesse spiegare la cosa in maniera semplice, si direbbe che stiamo registrando un aumento robusto della domanda di energia e una temporanea e selettiva contrazione dell’offerta. I più alti consumi energetici sono spinti dalla ripresa post-Covid che si diffonde in tutti i paesi, le restrizioni dell’offerta sono invece circoscritte: dalla calma di vento nel Mare del Nord – che ha fatto girare meno le pale eoliche – alle riduzioni nelle consegne di gas naturale che attraversano i gasdotti che dalla Russia raggiungono i paesi dell’Europa. 

Dietro a tutto questo vi sta soprattutto la spinta della ripresa dell’attività economica, la quale muove all’insù il prezzo del petrolio – e quindi il costo dei trasporti – e quello del gas – per gli usi molteplici che ha, dal riscaldamento domestico agli impieghi industriali, alla generazione elettrica. Perfino il prezzo del carbone è salito significativamente e un ulteriore effetto è l’aumento del prezzo dei permessi di emissione sul mercato europeo, l’Emission Trading Scheme, a sua volta traslato nei maggiori costi dell’elettricità. E vale la pena di ricordare che nel 2019 le fonti fossili rappresentavano l’84 per cento del totale mondiale, mentre il solo gas naturale pesava in Italia per il 41 per cento nel 2020.

Il timore che l’impennata dei prezzi energetici possa strozzare la ripresa economica ha indotto molti governi, tra cui il nostro, a intervenire per sterilizzarne o almeno contenerne l’impatto. Con decreto legge 27 settembre 2021, n. 130 (“Misure urgenti per il contenimento degli effetti degli aumenti dei prezzi nel settore elettrico e del gas naturale”), il governo Draghi ha stanziato oltre 3 miliardi di euro per limitare la crescita della bolletta delle famiglie e delle microimprese, destinando 2,5 miliardi di euro all’azzeramento degli oneri generali di sistema per il prossimo trimestre e 500 milioni circa al potenziamento dei bonus di sconto per i nuclei familiari aventi diritto. Si è aggiunta una riduzione al 5 per cento dell’Iva per le bollette gas. La preoccupazione è naturalmente che siano colpite soprattutto le famiglie meno abbienti, strozzandone così il ritorno ai consumi. 

Oneri di sistema e questione nucleare

Ma cosa sono i cosiddetti oneri di sistema? Tutti i clienti finali del servizio elettrico sono chiamati a coprire i costi relativi ad attività di interesse generale per il sistema elettrico. Gli oneri di sistema, dunque, sono stati introdotti per far fronte a specifici obiettivi collettivi che riguardano il sistema elettrico. Quali? Vi è la messa in sicurezza del nucleare e le misure di compensazione territoriale, gli incentivi alle fonti rinnovabili e assimilate, la copertura delle agevolazioni tariffarie riconosciute per il settore ferroviario, il sostegno alla ricerca di sistema, la copertura del bonus elettrico e delle agevolazioni per le imprese a forte consumo di energia; le integrazioni delle imprese elettriche minori e la promozione dell’efficienza energetica. Appare chiaro che accanto a spese direttamente connesse con il servizio di fornitura di energia, come le politiche di incentivazione alle fonti rinnovabili, ve ne sono altre che poco o nulla hanno a che fare con tale attività.

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Premesso che il governo italiano non è stato il solo a intervenire per contenere gli effetti del caro-energia e che, come osservano Polo, Pontoni e Sileo, la stessa Unione europea se ne sta occupando, questi fatti suscitano alcune considerazioni. 

La prima è che si è prontamente riaffacciato nel dibattito politico nazionale il tema del nucleare. Se fossimo dotati di qualche reattore nucleare – si sostiene – produrremmo elettricità a costo bassissimo senza generare emissioni nocive. 

È un tema latente e divisivo della questione energetica nazionale: in questo frangente il leader della Lega, Matteo Salvini, si è spinto a dire “in Lombardia perché no”, mentre i M5S hanno subito alzato le barricate. Vero è che da sempre l’Agenzia internazionale per l’energia sostiene che la decarbonizzazione non può prescindere da un contributo del nucleare. Gli sviluppi tecnologici più recenti, poi, in ambito di fissione nucleare puntano a mini-reattori o reattori modulari, con conseguente riduzione dei costi e semplificazione della costruzione, per non parlare dei recentissimi progressi sul fronte della fusione nucleare. Ma per il momento resta altrettanto vero che il nucleare “attuale” comporta costi altissimi – tenendo conto della parte capitale e non solo operativa del costo del megawatt – e tempi di realizzazione che inevitabilmente sono lunghi se non lunghissimi. Stando in Europa i nuovi reattori Epr (European Pressurized Reactor) in costruzione a Flamanville (Francia) e Olkiluoto (Finlandia) hanno già accumulano ritardi, ostacoli tecnici ed extra costi. È certamente vero che i tempi della decarbonizzazione saranno comunque lunghi – più di quanto ci piace pensare – così come nuovi reattori sono pianificati o in fase di realizzazione in Cina, India, Corea del Sud e altri paesi. Ma la combinazione di scarsa accettabilità sociale e dell’espansione delle fonti rinnovabili rende alquanto improbabile un ritorno dell’energia nucleare in Europa, e quindi anche in Italia. Insomma, l’impressione è che si sia ritornati a parlarne per distogliere l’attenzione del pubblico dal tema degli aumenti della bolletta.

Due verità scomode

Vi è poi il tema della fiscalità. Anche in questa occasione ci viene ricordato dai media che quando ci avviciniamo alla pompa di rifornimento paghiamo per la guerra d’Etiopia e la crisi di Suez, per vari disastri nazionali – come il Vajont, l’alluvione di Firenze, i terremoti di Belice, Friuli, Irpinia, L’Aquila ed Emilia -, per le missioni Onu in Libano e in Bosnia, per il rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri, l’acquisto di autobus ecologici, il finanziamento alla cultura e per far fronte all’arrivo di immigrati dopo la crisi libica. Si tratta di un esercizio vuoto e fine a se stesso: gli aumenti del passato sono ormai oggi parte integrante dell’accisa, che è impensabile possa venire ridotta, e di entrate fiscali che, se venissero meno, dovrebbero essere compensate da altre voci. Quanto agli oneri di sistema, apparirebbe alquanto logico spostare sulla fiscalità generale quelli che nulla hanno a che fare con la generazione elettrica. Ma è bene essere chiari: una simile operazione, così come la riduzione dell’Iva sul gas o delle accise sui carburanti, nel nostro paese sposterebbe solo l’onere dalla corrente platea dei contribuenti alle generazioni future. Data la situazione difficile dei nostri conti pubblici – non cancellata dalla pandemia – si finirebbe per creare altro debito caricato sulle spalle di chi verrà dopo di noi. E questa è una prima scomoda verità. 

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Fra un paio di settimane andrà in onda a Glasgow la Cop26, il summit annuale dedicato al clima: quest’anno si presenta carica di aspettative per il recente moltiplicarsi degli effetti negativi dei cambiamenti climatici, che sono ormai sotto gli occhi di tutti. Si moltiplicano gli appelli e gli annunci di interventi decisi di contrasto da parte dei leader dei maggiori paesi. Al G20 di Roma il prossimo 30 e 31 ottobre, da lui presieduto, Mario Draghi spingerà perché i “grandi” prendano un impegno netto per mantenere il riscaldamento globale entro 1,5°C, l’obiettivo massimo dell’Accordo di Parigi. Il 2021 è anche l’anno dell’ultimo rapporto dell’Ipcc e del moltiplicarsi degli obiettivi di neutralità climatica al 2050 annunciati da oltre 137 paesi secondo l’Energy and Climate Intelligence Unit

Per ridurre le emissioni di gas-serra vi sono essenzialmente tre strade: 1) rendere l’emissione di CO2 (molto) più costosa, 2) spingere (al massimo) il passaggio alle fonti rinnovabili, 3) ridurre i consumi di energia (di qualsiasi fonte). In estrema sintesi, la prima strada richiede di tassare il carbonio e quindi i consumi di fonti fossili; la seconda e la terza implicano la concessione di sussidi e crediti d’imposta. Le conseguenze per i bilanci pubblici sono evidenti: la prima strada aumenta le entrate, la seconda e terza aumentano le uscite. Si potrebbe fare pagare i sussidi direttamente ai beneficiari, cioè ai cittadini, come è stato fatto anche nel nostro paese per solare ed eolico. Questo porterà inevitabilmente a un aumento delle bollette energetiche. 

Ma la seconda scomoda verità dovrebbe essere chiara. Presi tra un elevatissimo debito pubblico da un lato e l’esigenza – anzi l’annunciato fermo proposito – di combattere il cambiamento climatico dall’altro, la strada da seguire è rendere più costosa l’energia di fonte fossile, non il contrario. Nell’anno di Glasgow non ci si può permettere di concedere sussidi alle fonti fossili, per quanto motivati da considerazioni di ripresa economica, per quanto temporanei, per quanto gravosi per i meno abbienti. Stride, proprio a due settimane da un cruciale summit sul clima, il segnale mandato da diversi governi, compreso il nostro.

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  1. Paolo

    Penso che nell’analisi non abbiano trovato spazio considerazioni tecniche basilari: i consumi di energia (fossile) sono principalmente consumi industriali e terziari (meno del 20% residenziali), trasporti inclusi, e quindi per essere ridotti richiederanno investimenti sia da parte delle imprese che li sostengono, sia da parte dei costruttori di impianti a fonte rinnovabile (perchè a differenza delle abitazioni e degli uffici, il 95% delle attività produttive non dispone di sufficiente spazio per installare sul posto tutte le FER che servirebbero).
    Come si potranno finanziare questi investimenti se l’aumento dei costi mette a rischio i conti aziendali, fino a causare addirittura il fermo della produzione di diverse categorie di industrie (per ora i fertilizzanti, presto forse il settore tissue, non si escludono altri)?
    Un limitato aumento dei costi rende gli investimetni più convenienti, ma se la produzione rischia di fermarsi è evidente che non è possibile investire sulla riduzione dei consumi.
    Inoltre alcune attività industriali sono ovviamente molto più energivore della media (che comprende terziario e distribuzione commerciale, dove i consumi pur importanti in valore assoluto impattano sul fatturato con % a una sola cifra), e quindi tassare la CO2 indistintamente porterà solamente a delocalizzare queste attività.
    Decarbonizzare attraverso la deindustrializzazione non sembra questa grande idea (soprattutto se la seguiamo solo noi, mentre il resto del mondo continua allegramente ad aprire nuove centrali a carbone).

  2. teo

    Le fonti fossili, nei Paesi industrializzati (Italia compresa), NON sono incentivate. Consiglio di leggere molto attentamente il CATALOGO DEI SUSSIDI AMBIENTALMENTE DANNOSI E DEI SUSSIDI AMBIENTALMENTE FAVOREVOLI 2018 (Dicembre 2019) del Ministero dell’Ambiente.
    In questo post è documentato:
    http://www.nuclearmeeting.com/forum/showthread.php?tid=434

  3. Rick

    Lascia davvero perplessi una conclusione così drastica (questa: “la strada da seguire è rendere più costosa l’energia di fonte fossile”). La policy proposta dagli autori viene infatti di solito accompagnata da meccanismi atti a evitare che le famiglie povere si trovino a scegliere tra “to heat or to eat”.

    Il problema non è solo di equità: in termini di political economy, una policy come quella proposta dagli autori otterrà solo l’obiettivo di far aumentare i voti di politici populisti.

  4. Savino

    Distribuire meglio le ricchezze prima di transitare all’ecologico e al digitale.

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