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Donna e straniera: ecco chi paga la crisi da pandemia

Sono le donne straniere le più colpite dalla crisi dovuta al Covid-19. Lo confermano i dati sugli occupati nel 2020. Perché sono più spesso occupate in lavori precari. Così blocco dei licenziamenti e cassa integrazione sono stati di ben poco aiuto.

I dati sugli occupati dell’intero 2020

Le dinamiche dovute alla pandemia di Covid-19 hanno mutato fortemente il mercato del lavoro a livello mondiale, con un impatto generalmente maggiore per le categorie con condizioni di partenza più precarie o per quelle concentrate in settori particolarmente esposti alle restrizioni.

Su lavoce.info, nei mesi scorsi, sono già stati analizzati i fattori di rischio per la popolazione immigrata e i dati relativi al II trimestre 2020. Mentre, a livello mediatico, è stato ampiamente sottolineato come la crisi abbia colpito più le donne degli uomini, portando a parlare di “she-cession”.

Ora, grazie ai dati sugli occupati nel 2020, è possibile definire un bilancio più preciso, almeno per il primo anno di pandemia (si fa riferimento alla definizione di occupato utilizzata dall’Istat fino al dicembre 2020).

In tutta Europa più penalizzati gli stranieri

A livello europeo, tendenzialmente in tutti i paesi il tasso di occupazione è diminuito di più tra gli stranieri che tra gli autoctoni: nella media Ue27, ad esempio, dal 2019 al 2020 il tasso di occupazione è diminuito di 2,7 punti tra gli stranieri e di 0,6 punti tra gli autoctoni.

Per quanto riguarda gli stranieri, in alcuni paesi il tasso di occupazione è addirittura aumentato. Si tratta di Slovenia (+2,4 punti), Danimarca (+1,5), Lettonia (+1,5), Finlandia (+1,4), Malta (+1,3) e Polonia (1,1). Le diminuzioni più significative si sono registrate invece in Slovacchia (-13,1 punti), Croazia (-6,3) e Spagna (-5,4).

In Italia, il tasso di occupazione è diminuito di 3,7 punti tra gli stranieri e di 0,6 punti tra gli autoctoni. E, per la prima volta, il dato degli stranieri (57,3) scende al di sotto di quello degli italiani (58,2). Osservando la serie storica, si nota come il calo del tasso di occupazione degli stranieri nel 2020 sia stato molto più intenso rispetto a quello degli italiani.

I più colpiti per genere e provenienza

Anche per quanto riguarda il numero assoluto di occupati (15 anni e oltre), la perdita è stata molto più intensa per gli stranieri (-6,4 per cento) che per gli italiani (-1,4 per cento).

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In particolare, sono le donne straniere ad aver pagato il dazio maggiore. Sul totale dei posti persi tra il 2019 e il 2020 (456 mila), oltre un terzo è da attribuirsi alla componente straniera e ben un quarto (24 per cento) alle sole donne straniere.

Tra i 159 mila posti di lavoro persi tra gli stranieri, il 69 per cento riguarda le donne (109 mila femminili e 50 mila maschili). Tra gli italiani (297 mila posti in meno), il 47 per cento riguarda le donne. Dunque, sono soprattutto le donne straniere a determinare il crollo dell’occupazione femminile complessiva, con una perdita di quasi 5 punti di tasso di occupazione. Per le italiane, esattamente come per gli uomini italiani, la perdita è stata di 0,6 punti. Tra i posti di lavoro femminili persi, la componente straniera incide per il 44 per cento.

L’impatto per settore

Nell’ultimo anno i settori più colpiti sono stati quelli legati al turismo (commercio, alberghi e ristoranti, servizi): gli stranieri nel settore “commercio e ristorazione” sono calati del -15 per cento (contro il -4,7 per cento degli italiani) e del -5,6 per cento negli “altri servizi”. Sono aumentati invece gli stranieri in agricoltura (+1,4 per cento).

Da segnalare l’aumento degli occupati italiani nel settore dell’edilizia (+2 per cento, contro il -1,3 per cento degli stranieri), probabilmente grazie al “traino” del super-ecobonus. Infatti, nell’edilizia si registra un incremento di lavoro autoctono sia di posti maschili (+1 per cento) che di posti femminili (+19 per cento), queste ultime probabilmente legate alla gestione dell’incentivo.

Nella ripartizione per tipologia di contratto, il primo dato riguarda l’incidenza degli stranieri, che rappresentano il 15,6 per cento tra i dipendenti a tempo determinato, il 10,9 per cento tra quelli a tempo indeterminato e il 5,6 per cento tra gli autonomi. In tutte e tre le categorie, la crisi ha inciso più sugli stranieri che sugli italiani.

Tra i dipendenti a tempo determinato, ad esempio, si è registrato un -12,4 per cento tra gli italiani e un -14,6 per cento tra gli stranieri. Tra i dipendenti a tempo indeterminato, invece, gli italiani sono addirittura aumentati (+1,1 per cento), mentre gli stranieri sono diminuiti (-3,4 per cento). Ancora più netta la differenza tra gli autonomi: -2,5 per cento per gli italiani, -9,2 per cento per gli stranieri.

Infine, l’approfondimento per singola professione aiuta a capire meglio alcune dinamiche.

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Tra gli italiani, sono aumentati gli occupati come personale non qualificato nei servizi di istruzione e sanitari (+12,8 per cento), professione rappresentata per oltre il 70 per cento da donne. In crescita anche artigiani e operai dell’agro-alimentare (+9 per cento) e professioni ingegneristiche (+6,9 per cento). In questo caso, si tratta di una professione prevalentemente maschile (solo 8,8 per cento donne). In forte calo, invece, gli addetti della ristorazione (-13,7 per cento), artigiani e operai nell’edilizia (-8,5 per cento) e specialisti educatori e formatori (-8,1 per cento).

Tra gli stranieri, sono aumentate (+11,1 per cento) alcune tipologie di operai specializzati (fonditori, saldatori, lattonieri, calderai), principalmente uomini (donne 1,8 per cento). In forte calo, invece, operai addetti all’assemblaggio (-28,9 per cento), esercenti delle vendite (-25,2 per cento), esercenti nella ristorazione (-22,3 per cento) e venditori ambulanti (-18,9 per cento).

Queste dinamiche non dipendono solamente dalla crisi del rispettivo settore, quanto invece dalla concentrazione di lavoratori precari (contratti a scadenza). Ciò è confermato anche dal fatto che nelle stesse professioni vi sono forti differenze tra italiani e stranieri: ad esempio, gli esercenti delle vendite italiani hanno registrato un -3,7 per cento, contro il -25,2 per cento degli stranieri.

In questo senso, il blocco dei licenziamenti e la cassa integrazione hanno rappresentato uno scudo molto importante per i lavoratori a tempo indeterminato, lasciando invece indifese le fasce più precarie.

Tra le politiche del lavoro in tempo di ripresa sarà opportuno pensare anche a tutele per quelle categorie.

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  1. Savino

    Giovani competenti allo sbaraglio nel sistema italiano che pensa solo ai seniores privilegiati. E’ ipocrita che Letta voglia dare la paghetta-dote da 10.000 Euro una tantum e che col reddito di cittadinanza si trattenga la gente che merita sul divano. Lo sviluppo passa per il ricambio, nella ricerca, nella p.a., nella scuola, nelle professioni.

    • P.S.

      Giovani competenti è tutto da dimostrare.
      Cio’ non significa che non lo siano, preciso pero’ che essere laureato non significa essere competente.
      Non è sufficiente nemmeno frequentare il partito, scambiare due chiacchiere, ancorchè laureato per diventare manager come fanno credere gli imbroglioni della politica. Vd ministro Speranza.
      Il ricambio nelle professioni private lo potete già attuare. E’ necessario e non sufficiente essere migliori degli altri professionisti e lavorare molto molto molto.
      Se ce la fai, sarai espropriato e dovrai pagare molte tasse per mantenere i parassiti di stato. Quelli che non ci riescono.

      • Savino

        i giovani sono sicuramente più competenti di quelli che ci hanno mandato in tilt con la pandemia e dei professionisti privi di scrupoli.

  2. Francesco Giartosio

    Nelle colonne di destra della tabella 1 sono riportati gli stessi importi delle colonne di sinistra, anziché le percentuali.

  3. Luca Neri

    Trovo sempre sorprendenti le interpretazioni semplicistiche che riguardano le statistiche stratificate per sesso nella stampa, anche specialistica; semplificazioni che peraltro non si riscontrano nella letteratura scientifica dove è richiesto un differente rigore metodologico. Veniamo ai fatti. I dati mostrano che le donne hanno mantenuto meno posti di lavoro degli uomini durante la pandemia, e questo è dovuto essenzialmente al calo dell’occupazione femminile straniera, mentre per quanto riguarda le donne italiane, non si ha una maggior riduzione rispetto al dato maschile. In primo luogo, occorre dire che questi dati sconfessano precedenti articoli giornalistici e dichiarazioni di politici ed esperti che asserivano una generale perdita di occupazione per le donne. Questa affermazione è vera solo per le donne immigrate. Secondo, questo articolo non considera almeno due fattori confondenti. In primo luogo la perdita di occupazione potrebbe essere stata del tutto volontaria. Infatti l’aumento dei tassi di disoccupazione non è tale da assorbire la diminuzione dei tassi di occupazione: in altre parole, le donne senza lavoro, in una larga quota dei casi, non hanno cercato lavoro, manifestando quindi la volontà di non lavorare. In secondo luogo, parte della perdita di occupazione potrebbe essere spiegata da fenomeni migratori (rientro nei paesi di origine). Infatti, il numero assoluto di occupati è sceso maggiormente del tasso di disoccupazione, un effetto molto probabilmente di composizione del denominatore. Tuttavia, il fenomeno più sorprendente che si ripete costantemente nella stampa nazionale è l’idea, resistente alle evidenze, che il sesso femminile abbia subito i maggiori danni dalla pandemia. Per trarre questa conclusione del tutto parziale si citano due dati: l’aumento delle ore dedicate alla cura dei figli (dando per scontato che la preferenze “delle donne” si quella di occuparsene di meno rispetto al lavoro), la riduzione delle ore lavorate (dando per scontato che questa riduzione sia stata forzata dalla situazione e non una scelta razionale anche in relazione alle preferenze individuali). Di entrambe queste assunzioni non vi è evidenza alcuna, purtroppo. Questa forzatura interpretativa è ancora più evidente se si considera che il prezzo complessivo della pandemia non può essere ridotto semplicemente al computo delle ore di lavoro perse o al tempo aggiuntivo dedicato alla DAD. I tassi di fatalità del COVID19 sono il 70% maggiori tra gli uomini, i tassi di ospedalizzazione maggiori del 40% nel sesso maschile. In queste condizioni, si potrebbe dire che poter rinunciare al lavoro e starsene in sicurezza a casa è un privilegio, anzichè un costo, almeno per una parte di persone che compongono le statistiche sull’occupazione. Se guardiamo all’accesso alle cure e le politiche sanitarie, dobbiamo osservare che queste hanno privilegiato il sesso femminile. Basti pensare alla polemica sull’utilizzo dei vaccini a vettore virale nella popolazione di età inferiore ai 60 anni. L’analisi rischi-benefici del CDC americano mostra chiaramente che nel sesso maschile il rapporto rischi-benefici del vaccino a vettore virale è favorevole in tutte le fasce di età, mentre per le donne il beneficio è incerto solo nelle fasce di età più giovani. Eppure, gli uomini, il sesso più vulnerabile al virus non hanno avuto la precedenza nelle vaccinazione (si è applicato il criterio anagrafico, perchè non il criterio di genere, con la stessa motivazione?); oggi, in seguito al clamore mediatico generato da sparuti casi di effetti collaterali gravi su donne giovani, gli uomini si vedono negato accesso tempestivo alla protezione vaccinale perchè è vietato nel nostro paese l’uso di vaccini a vettore virale sotto i 60 anni, sia a uomini che donne indistintamente, in maniera del tutto irrazionale. Quindi pongo candidamente la domanda agli autori di questo articolo: chi ha veramente pagato il prezzo maggiore della pandemia?

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