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Il problema delle professioni è l’auto-regolamentazione

Le riforme della regolamentazione delle professioni dovrebbero seguire principi specifici per ogni mercato. Ma tutte dovrebbero abbandonare il presupposto dell’auto-regolamentazione, in particolare nella definizione delle norme di pratica professionale.

La semplificazione del Pnrr

Il mondo delle professioni regolamentate è ancora una volta soggetto a interventi normativi. Il più recente appare nel Piano nazionale di ripresa e resilienza che introduce la possibilità di semplificare le procedure d’accesso ad alcune professioni (ancora da definire) dando funzione abilitante alla laurea. In precedenza, il governo Conte aveva accolto (decreto legislativo 16/10/2020 n. 142) una direttiva europea (n. 2018/958) che chiedeva agli stati membri di prevedere una valutazione di proporzionalità per tutte le riforme volte a introdurre o modificare la regolamentazione delle professioni.

La regolamentazione di alcune professioni dovrebbe essere motivata dall’esigenza di proteggere i consumatori dalle conseguenze di servizi di scarsa qualità qualora esistano problemi di informazione asimmetrica. Per esempio, può essere molto difficile per una persona comune individuare – e quindi evitare – un medico incompetente. Poiché essere curati da un dottore poco capace può avere conseguenze potenzialmente molto gravi, è preferibile regolamentare l’accesso alla professione medica per impedire agli incapaci di operare sul mercato. Stesso argomento vale per i farmacisti, gli avvocati e, in teoria, per tutte le professioni regolamentate. 

Naturalmente, limitare l’accesso a un mercato ha necessariamente un costo: rispetto a uno non regolamentato, vi opererà un minor numero di professionisti e di conseguenza i prezzi saranno più elevati. Non c’è dubbio che preservare o migliorare la qualità dei servizi (e dei beni) offerti in un sistema economico sia sempre desiderabile ma, escludendo l’idea di regolamentare l’accesso a tutte le professioni esistenti, è necessario decidere se e dove (e come) introdurre questo tipo di norme. Di volta in volta, bisognerà quindi valutare se i vantaggi in termini di miglioramento della qualità dei servizi offerti siano commisurati ai costi in termini di limitazioni alla concorrenza. La direttiva europea – e quindi il decreto Conte che la traduce nella legislazione italiana – ristabilisce questo principio fondamentale in un contesto in cui troppo spesso, e non solo in Italia, restrizioni all’esercizio di alcune professioni sembrano essere state adottate più sull’onda di pressioni corporative che non sulla base di una effettiva valutazione dei costi e dei benefici. In questa prospettiva, l’intervento previsto dal Pnrr sembra riservare al governo la possibilità di semplificare l’accesso alle professioni nelle quali le limitazioni attuali appaiano sproporzionate ai presunti vantaggi in termini di qualità.

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Nonostante la ragionevolezza del principio, la direttiva europea e la riforma prevista dal Pnrr mancano in quello che sembra essere il problema più serio: nella maggior parte dei casi non si osserva alcun miglioramento della qualità dei servizi nelle professioni regolamentate. Numerosi studi scientifici ne hanno analizzate diverse in diversi paesi utilizzando una grande varietà di approcci metodologici e nella quasi totalità dei casi non emerge alcun effetto positivo della regolamentazione sulla qualità dei professionisti o dei servizi da loro offerti. Si tratta di studi che riguardano importanti professioni, come gli infermieri, i medici, i contabili, gli ottici o gli avvocati ma anche gli istruttori di scuola guida. 

Ripensare l’auto-regolamentazione

Questi risultati non devono però necessariamente portarci a concludere che si debba completamente liberalizzare l’accesso a tutte le professioni. Infatti, è del tutto evidente che in alcuni casi le conseguenze di un cattivo servizio sono talmente disastrose da giustificare largamente una forma di regolamentazione dell’accesso e della pratica. Il mercato dei servizi sanitari è un ovvio esempio. 

Come interpretare allora la mancanza di evidenza empirica sugli effetti positivi della regolamentazione sulla qualità? Da un lato, misurare la qualità dei servizi non è facile e la mancanza di risultati positivi in letteratura può essere dovuto, almeno in parte, a questo. Dall’altro, ci sembra che i risultati segnalino piuttosto il fatto che la regolamentazione possa non dare i risultati desiderati perché è spesso mal disegnata. Per esempio, da un lavoro sulla professione legale in Italia – che abbiamo condotto di recente – emerge che la presenza di un parente già iscritto all’albo predice la probabilità di passare l’esame di abilitazione per avvocati meglio del voto di laurea, specialmente per i candidati con i voti più bassi. 

Più in generale, l’intera letteratura sul tema sembra indicare che uno degli elementi principali che impedisce alla regolamentazione professionale di migliorare significativamente la qualità dei servizi offerti sia il principio di auto-regolamentazione. In molte professioni regolamentate sono gli stessi professionisti a decidere chi entrerà in futuro nel mercato, con un ovvio, ancorché spesso implicito e forse anche inconscio, conflitto di interessi. Allo stesso modo, secondo il principio di auto-regolamentazione sono spesso le stesse organizzazioni professionali a definire le norme che regolano la pratica professionale attraverso i cosiddetti codici deontologici. 

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Si tratta di un principio che si fonda sull’idea che solo i professionisti stessi abbiano le competenze necessarie a valutare la qualità dei candidati e l’adeguatezza delle norme di comportamento. Se questa idea poteva essere valida in passato (e spesso in un passato molto lontano), ci sembra che nella maggior parte dei casi non lo sia più oggi.Riforme che potrebbero migliorare l’efficacia della regolamentazione professionale devono ovviamente essere disegnate in modo specifico per ogni mercato, ma si possono forse individuare alcuni principi generali. Per esempio, andrebbe ripensata la composizione delle commissioni d’esame riducendo il peso dei rappresentanti delle professioni al loro interno per ridurre i conflitti di interesse. Si dovrebbe anche garantire il completo anonimato degli esaminandi, magari abolendo gli orali laddove previsti, per limitare pratiche nepotistiche. Infine, il principio di auto-regolamentazione dovrebbe essere abbandonato, soprattutto per quanto riguarda la definizione delle norme di pratica professionale e il relativo potere sanzionatorio.

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Il Punto

  1. Savino

    Più deontologia pensando ai poveri ragazzi tirocinanti e neo partite IVA. Conosco approfonditamente il mondo degli avvocati seniores che in questi decenni hanno fatto semplicemente schifo degradando quella professione con bassezze etiche indicibili. Per fortuna si affacciano nuove generazioni non disponibili a compromessi di sorta.

    • Franco Guazzoni

      In realtà il punto cruciale mi sembra riguardi il livello minimo di conoscenze (di vario tipo, comportamentali incluse) necessario per esercitare una professione, chi lo debba stabilire e chi le debba/possa valutare in un candidato. Gli “ordini” certamente sono un po’ troppo chiusi, occorrerebbe svincolarli da interessi di parte, mentre le professioni riconosciute ex Legge N. 4 del gennaio 2013 sono certamente più aperte. Ma in entrambi i casi non mi sembra utile (né possibile) trasferire a terzi il pacchetto delle conoscenze necessarie per effettuare le valutazioni dei requisiti di appartenenza a un ordine o ad una professione riconosciuta . Piuttosto questi requisiti dovrebbero essere oggetto di verifiche periodiche perché si mantenga l’appartenenza all’ordine o alla professione, come per esempio avviene per i consulenti di management appartenenti ad APCO, che fa una verifica ogni tre anni.

  2. Silvano Pigato

    Ci vuole più coraggio x cambiare abitudini inveterate nei professionisti ” arrivati”

  3. Belzebu'

    “Manca personale pubblico capace di disegnare progetti ma anche chi sia semplicemente in grado di valutare quelli formulati da professionisti e imprese private”
    Verissimo! Per un ragione molto semplice:

    In Italia si diventa dipendente pubblico e quindi dirigente, mediante concorso pro-forma sulla procedura amm.va e non con prove di verifica sulla preparazione professionale reale di “ingegneri strutturisti e architetti”, (unici titolati ) con progetti veri, calcolo strutturale, competenza per la conduzione e direzione dei lavori in cantiere ecc. Tutte capacità ottenibili, sia per architetti che per ingegneri, inevitabilmente, dopo laure qunquennale vecchio ord., tirocinio lavorativo nel privato.
    Minimo cinque anni, post laurea, per calcolatori-strutturisti, e minimo dieci anni per progettisti di strutture complesse.
    Probabilmente, l’architetto Renzo PIANO, non avrebbe mai superato un concorso pubblico in Italia, a meno che non fosse stato raccomandato dalla politica che non garantisce niente.

    Tuttavia, codesto personale pubblico detiene il potere di respingere progetti di liberi professionisti, almeno di quelli non ”in sintonia” con l’orientamento ideologico, o forse peggio, della commissione urbanistica formata da politici, sicuramente non esperti ma pronti e preparati a estorcere.

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