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Chi ha paura dei robot?*

È vero che l’introduzione di robot porta all’automazione di attività prima svolte da lavoratori. Ma solo poche possono essere eseguite in maniera totalmente autonoma dalle macchine. Spetta alla politica indirizzare un cambiamento a beneficio di tutti.

Domande in cerca di risposta

I robot spiazzano il lavoro dell’uomo? Dobbiamo temere il diffondersi dei robot? Negli ultimi anni sono più numerosi i posti di lavoro distrutti o quelli creati dall’azione di questa tecnologia? Proviamo a dare una risposta per l’Italia in un nostro recente studio, insieme a Silvio Traverso ed Enrico Tundis, dal titolo Stop worrying and love the robot: An activity-based approach to assess the impact of robotization on employment dynamics.

Gli effetti del cambiamento tecnologico e dell’automazione sull’economia e sul mercato del lavoro sono stati al centro di un lungo dibattito, ritornato popolare con la diffusione su larga scala dei robot e dell’intelligenza artificiale. Le conseguenze sul mercato del lavoro di queste innovazioni sono state considerate come dirompenti in molte riflessioni dedicate al tema (Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, 2014). Recentemente si sono sviluppati due principali filoni di ricerca, correlati ma distinti. Il primo è incentrato sull’identificazione di quali sono – e, in prospettiva, quali saranno – le professioni più esposte ai robot e ad altre tecnologie innovative; il secondo, più retrospettivo, riguarda l’impatto che l’automazione ha avuto sui lavoratori e sui mercati del lavoro locali negli ultimi anni.

Il nostro studio collega i due filoni e fornisce nuove evidenze empiriche sull’impatto dell’adozione di robot sulle dinamiche occupazionali nel periodo 2011-2018 in Italia. Lo studio si concentra, in modo particolare, sulla sovrapposizione tra le specifiche attività svolte dai diversi tipi di robot e quelle caratterizzanti le varie occupazioni.

Lo studio

La banca-dati dell’International Federation of Robotics identifica le specifiche attività svolte da ciascun robot, chiamate “applicazioni robotiche”. L’Indagine campionaria delle professioni (Icp) svolta da Inapp, che adatta il modello della O*NET americana al contesto italiano, permette di conoscere la frequenza e l’importanza delle attività svolte dai lavoratori in ciascuna professione.

Oltre alla nuova misura della variazione locale nello stock di robot per lavoratore basata sulla corrispondenza tra applicazioni robotiche e attività professionali (attraverso un metodo che adatta l’approccio settoriale di Daron Acemoglu e Pascual Restrepo 2020), il nostro contributo introduce anche una nuova distinzione tra gli operatori dei robot, cioè i lavoratori coinvolti nella progettazione, installazione, manutenzione e funzionamento di forme di automazione legate alla robotizzazione, e i lavoratori esposti ai robot, ossia quelli che svolgono attività corrispondenti a precise applicazioni robotiche (ad esempio, saldatori e robot di saldatura) e che quindi sono potenzialmente sostituibili.

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Figura 1 – Evoluzione nell’introduzione di robot all’interno dei sistemi locali del lavoro italiani, 2011-2018.

Nota: la figura riporta l’evoluzione nell’introduzione di robot in 377 Sll italiani tra il 2011 e il 2018. L’introduzione dei robot è misurata seguendo l’approccio “activity basedper combinare occupazioni e applicazioni robot.

I risultati

I risultati dell’analisi econometrica, che sfrutta l’eterogeneità tra sistemi locali del lavoro nell’adozione di nuovi robot (figura 1) e nell’evoluzione delle quote occupazionali (per i dettagli si rimanda allo studio), mostrano come nel corso dell’ultimo decennio l’introduzione di robot industriali non abbia prodotto effetti negativi sul tasso di occupazione locale, come già indicato da altri studi che adottano l’approccio settoriale (Davide Dottori, 2021).

Il risultato, tuttavia, nasconde importanti differenze tra occupazioni ed effetti degni di nota. Da un lato, le categorie occupazionali esposte ai robot industriali non sembrano nel loro complesso aver risentito della loro introduzione. Dall’altro, gli operatori dei robot sono aumentati di circa il 50 per cento in poco meno di dieci anni, con un incremento significativamente più rilevante nelle aree caratterizzate da una più intensa adozione di robot. Più precisamente, un aumento dell’1 per cento nell’adozione di robot per lavoratore sembra aver portato a un incremento di 0,29 punti percentuali nella quota locale di loro operatori. Il risultato è coerente con l’idea secondo cui se le imprese investono di più nei robot, il numero di lavoratori che svolgono le attività complementari cresce a sua volta: è un fenomeno noto come reinstatement effect (Acemoglu e Restrepo, 2019).

L’introduzione di robot industriali in Italia pare non aver generato una contrazione delle occupazioni a elevato contenuto routinario, e quelle routinarie di tipo cognitivo sono addirittura aumentate dove ne sono stati adottati di più. Seppur in modo debole, anche le quote di professioni associate al controllo e all’utilizzo di macchinari (e, in generale, complementari ai processi di automazione) sembrano essere aumentate relativamente di più dove sono stati adottati più robot.

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Lo stesso non può dirsi per le occupazioni che richiedono sforzi di natura fisica al lavoratore. In particolare,l’introduzione di robot sembra aver contribuito aridurre le quote locali di occupazioni che prevedono un intenso impegno del busto, dei muscoli addominali e lombari.

Nel loro insieme, i risultati dell’analisi rivelano la natura complessa della relazione tra robotizzazione e dinamiche del mercato del lavoro. Infatti, se da una parte è innegabile che l’introduzione di robot porti all’automazione di attività per le quali era in precedenza necessario l’impiego di lavoro umano, è altrettanto vero che ogni occupazione consta di numerose attività diverse e solo poche di queste possono essere eseguite in maniera autonoma dai robot. È possibile che le attività soppiantate dai robot siano quelle che comportano maggiore onere fisico o di rischio per i lavoratori. In tal senso, ulteriori studi dell’Università di Trento e dell’Inapp hanno mostrato che i robot e l’intelligenza artificiale sono in grado di ridurre il grado di prossimità fisica sul posto di lavoro, contribuendo quindi a limitare il rischio di contagio da Covid-19.

Guardando al futuro, i nostri risultati sembrano ridurre l’apprensione per gli effetti negativi dei robot sull’occupazione, ma confermano l’importanza di qualificare il giudizio guardando a livello di specifici gruppi di professioni. Appare quindi cruciale, per il futuro, il ruolo dei fattori istituzionali, quali le politiche pubbliche, la formazione e la natura delle relazioni industriali, che possono influenzare sia gli incentivi delle imprese a robotizzare, sia gli effetti dei robot sulle varie categorie professionali. Lo studio dimostra che il cambiamento tecnologico nella forma della robotizzazione non è infatti neutrale, spiazzando alcuni lavoratori e favorendone altri. È compito del decisore pubblico e dei protagonisti del sistema industriale indirizzarne gli effetti a beneficio di tutti.

* Le opinioni espresse sono personali e non riflettono necessariamente la posizione di Inapp.

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Nel post-Covid l’impresa non cambia confini

  1. Beh Basta un Attacco Hacker o una Tempesta Solare Per Distruggere Tutte le Tecnologie Anche Mondiale, Mi Chiedo cosa Accadrà Alle Aziende coi Robot, Sono Costrette ad Assumerci e Tornare Ai Lavori Tradizionali. Voi Vi Attaccate Al Tram, Puntiamo Sulla Tradizione che è la Garanzia Del FUTURO! Slogan: “Chi Innova, FALLISCE!”

    • andrea

      un attacco hacker non puó colpire tutti i robot di tutte le aziende al mondo, esistono robot che non sono connessi alla rete e sono la maggioranza, una tempesta solare farebbe danni ben maggiori che la distruzione di robot.

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