Introdotto per tutelare difesa, sicurezza nazionale e poche altre attività strategiche, oggi il golden power si estende fino alle acquisizioni infra-europee, complice anche la pandemia. Rivedere la norma perché torni a essere uno strumento eccezionale.

Ricerca di un equilibrio tra esigenze opposte

È di poche settimane fa la notizia che il governo italiano ha esercitato, per la seconda volta, il potere di bloccare un’acquisizione in virtù della normativa sul cosiddetto golden power. In questo caso si trattava di una quota di controllo di Lpe, società italiana che realizza macchinari per la produzione di semiconduttori, da parte di un acquirente cinese.

Lo strumento consente al governo di limitare operazioni che potrebbero portare in mani straniere attività strategiche. Norme analoghe – pur con talune variazioni sul tema – sono previste dalla maggior parte degli ordinamenti, dettate e incoraggiate dall’Unione europea, e in altri paesi sono ancor più stringenti. La pandemia ha peraltro posto in evidenza, a volte anche in modo tragico, come in certi casi – si pensi alle forniture sanitarie – la proprietà nazionale delle imprese private non sia affatto neutrale per tutelare interessi pubblici.

Caratterizzare il dibattito su questi temi in schemi manichei e talvolta ideologici, tra protezionismo e liberismo, è ingenuo. Soluzioni estreme in un senso o nell’altro raramente sono sagge, e comunque sono solo teoriche nel mondo della realpolitik. A prescindere dal caso concreto, sul quale non ci esprimiamo, il problema di sistema è nell’equilibrio tra opposte esigenze, tenendo conto che in assenza di efficaci coordinamenti internazionali, almeno a livello regionale (leggi, Ue), il rischio di risultati inefficienti e spirali di ritorsioni è reale.

Norme rafforzate con il Covid-19

Vediamo, in estrema sintesi, come funziona la disciplina e come è stata rafforzata con il Covid-19. Essenzialmente, gli acquisti di partecipazioni rilevanti da parte di soggetti stranieri in imprese operanti in settori ritenuti strategici per gli interessi nazionali, insieme a una serie di altre operazioni societarie, devono essere notificati alla presidenza del Consiglio dei ministri che, laddove sussista un possibile pregiudizio agli interessi essenziali dello stato o un pericolo per la sicurezza o per l’ordine pubblico, può intervenire imponendo condizioni o anche vietando l’operazione. La volatilità dei mercati e le delicate condizioni socio-economiche generate dal Covid19 hanno portato la stessa Ue, l’Italia e diversi altri paesi a stringere notevolmente la vite, ampliando la portata della disciplina e rafforzando i poteri pubblici. Per limitarsi alle novità principali, introdotte su base temporanea ma applicabili almeno sino a giugno 2021, si sono estesi i settori ritenuti strategici, comprendendo ad esempio anche banche e assicurazioni; si sono abbassate le soglie di partecipazione che fanno scattare notifiche e poteri anche sotto la soglia di controllo. E, almeno in parte, si sono persino estese alcune delle restrizioni a operazioni da parte di soggetti europei, con una potenziale limitazione del mercato unico.

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La disciplina non è sempre chiara e priva di ambiguità, anche sullo stesso ambito di applicazione. Il risultato è che negli ultimi mesi le notifiche da parte delle aziende si sono moltiplicate, per evitare errori (e sanzioni). Già solo questo ha comportato un aggravio di costi e di incertezza o almeno dilazioni dei tempi sulla realizzazione di importanti operazioni. È poi inevitabile che, su una materia come questa, esista una certa discrezionalità del governo, perché gli stessi parametri cui è subordinato l’intervento sono necessariamente refrattari a logiche binarie, richiedendo complesse valutazioni in cui dovrebbero armonizzarsi considerazioni economiche, giuridiche e politiche.

Una discrezionalità eccessiva

Il fatto è che le numerose modifiche apportate alla normativa nell’arco di nove anni (sono sei e già si parla di una imminente settima revisione per estenderne l’applicazione all’automotive e alla siderurgia) ne hanno stravolto la ratio originaria, trasformando uno strumento eccezionale in una sorta di “tagliando” da effettuare per ogni operazione di fusione e acquisizione (e non solo: si applica per esempio anche in caso di modifiche statutarie e per la scelta dei fornitori per il 5G).

Il golden power originariamente doveva essere “neutrale” – prescindendo cioè dalla proprietà (pubblica o privata) della società target e dalla nazionalità dell’acquirente – e limitarsi a tutelare il settore della difesa e sicurezza nazionale nonché gli attivi strategici nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni. Col tempo, però, è divenuto un mezzo per controllare le acquisizioni da paesi extra-Ue che mettono a rischio la sicurezza e l’ordine pubblico nei settori ad alta intensità tecnologica e nelle tecnologie 5G. Oggi si estende alle acquisizioni infra-europee e perfino agli acquisti di esigue minoranze da soggetti extraeuropei. Di fatto, si tratta di un’autorizzazione applicabile in modo generalizzato senza poter conoscere a priori i criteri che giustificano l’applicazione dei poteri speciali né per valutare a posteriori la proporzionalità delle eventuali prescrizioni. Una discrezionalità pressoché assoluta dell’amministrazione può essere ammissibile solo ove si tratti di uno strumento eccezionale, la cui portata è limitata.

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A costo di essere tacciati come facili Cassandre, se non cambia presto la normativa (almeno per quanto riguarda gli acquisti infra-europei), prima o poi si rischia di incorrere nelle ire della Commissione o in censure delle corti europee.

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