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Pneumatici fuori uso: quando l’illegalità vince

Una circolare di fine 2020 del ministero dell’Ambiente chiede a chi gestisce in modo corretto gli pneumatici fuori uso di smaltire anche parte del mercato nero. A pagare sono i cittadini. Con quali strumenti si possono contrastare le pratiche illegali.

La circolare del ministero

Sotto l’albero di Natale del ministero dell’Ambiente, del territorio e del mare ha fatto la sua comparsa un principio innovativo nella gestione dei rifiuti. Ha però il sapore aspro di una beffa: preso atto dell’incapacità delle istituzioni – tutte, pubbliche e private – di contrastare efficacemente le varie forme di illegalità e di far rispettare la legge fino in fondo, si chiede a chi fino a oggi ha agito onestamente, di accollarsi la gestione anche di una parte del mercato nero.

È accaduto, nel silenzio generale e solo con qualche fanfara di un’associazione di categoria, nel caso della gestione degli pneumatici fuori uso (Pfu). È un vulnus che potrebbe creare un pericoloso precedente ed estendersi ad altre filiere, creando un punto di non ritorno. Si tratta di una questione giuridica ed etica allo stesso tempo.

Con una semplice circolare dell’11 dicembre 2020, il ministero dell’Ambiente ha chiesto ai consorzi e a chi si occupa in forma individuale della raccolta degli pneumatici fuori uso di ritirare il 15 per cento in più rispetto ai loro target annuali (riservandosi di poter arrivare in futuro anche al 20 per cento). Teoricamente, i consorzi non dovranno più raccogliere il 100 per cento dell’immesso al mercato (come prevedono tutti i sistemi di responsabilità estesa del produttore – Epr, ai sensi del Testo unico sull’ambiente), ma il 120 per cento, scaricando i costi della raccolta extra sul contributo ambientale, quindi su chi acquista pneumatici nuovi

In realtà, il decreto ministeriale 82/2011 (che ha applicato agli Pfu il meccanismo dell’Epr) ipotizzava forfettariamente un 10 per cento di usura del battistrada arrivato a fine vita e dunque il target di raccolta iniziale era stato parametrato non al 100 ma al 90 per cento. Ma proprio per provare a prosciugare almeno una fetta di mercato nero, nel 2018 il ministero era già intervenuto usando questa leva: un invisibile comma all’interno di una legge di fine 2018 limava il tasso di usura del battistrada, portandolo al 95 per cento dell’immesso al mercato, riducendolo quindi del 5 per cento. Un escamotage (noto solo agli addetti ai lavori) per rastrellare maggiori quantitativi di Pfu in circolazione, più o meno 15-20 mila tonnellate che vagavano nella terra di nessuno.

Il punto cruciale oggi è che l’extra target di raccolta si finanzia con un incremento del contributo ambientale pagato al momento dell’acquisto di pneumatici nuovi, quindi pagato dai cittadini.

Siamo dunque dinnanzi a una sorta di tassa occulta sull’illegalità (seppure di una piccola porzione di mercato nero)? Non c’erano altri modi per contrastare furbi e criminali? Si può dire che così si legittima il nero?

Come si è arrivati sin qui?

La storia della regolazione dei Pfu è lunga, ma istruttiva. Una svolta si ha nel 2011 quando viene emanato il decreto 82 – nel 2020 sostituito dal Dm 182 – che ne rivoluziona totalmente la gestione, prevendendo un regime di responsabilità estesa del produttore.

Come per altre tipologie di rifiuti, nel tentativo di mettere in pratica il principio europeo del chi-inquina-paga, si stabilisce che saranno i produttori e gli importatori di pneumatici nuovi a provvedere alla raccolta di un quantitativo di Pfu equivalente in peso alle gomme nuove immesse nel mercato italiano. I produttori/importatori sono liberi di assolvere all’obbligo in forma associata (tramite consorzi) oppure in forma individuale: ovviamente le principali case produttrici si sono subito organizzate tramite consorzi, anche se una trentina di operatori si sono mossi in forma individuale e, si può dire, senza dare troppo nell’occhio.

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Come si finanzia il meccanismo? Attraverso il contributo ambientale, un extra prezzo pagato in sostanza dagli acquirenti di pneumatici nuovi e usati importati, che serve per garantire la raccolta presso tutti i punti di generazione.

Un sistema infallibile in teoria, poiché assicura all’ultimo anello della catena, il gommista/riparatore, il ritiro gratuito delle gomme non più riutilizzabili, eliminando alla radice ogni incentivo a sbarazzarsene illegalmente, come avveniva troppe volte in passato. Se prima del 2011, i Pfu erano una presenza immancabile in ogni discarica abusiva, scaricati in ogni dove, da quel momento gli abbandoni illegali si sono effettivamente ridotti drasticamente.

Come funziona il mercato nero

Ma l’illegalità è sempre capace di aprirsi varchi dentro la regolazione, di occupare spazi vuoti. E la storia non finisce qui perché, gradualmente, l’illegalità si è spostata nella fase del commercio delle gomme nuove, anche tramite piattaforme on line, capaci di vendere in evasione del contributo ambientale e dell’Iva, in modo da praticare prezzi stracciati. Così un modello pensato per ragioni ambientali ha creato la sua ombra perfetta, fatta di pratiche commerciali sleali nel regno della globalizzazione. Una di queste piattaforme, Pneumaticone, è stata prima chiusa e poi multata dall’Antitrust (dicembre 2020) con una cifra complessiva di 500 mila euro per le sue pratiche scorrette. Accanto alle piattaforme on line, gli investigatori scoprono spesso società con sede all’estero impegnate a far arrivare in Italia Tir carichi di pneumatici. Una volta che le gomme sono arrivate senza intoppi a destinazione, le società distruggono ogni documentazione così da far sparire le prove dell’ingresso in Italia e alimentare il mercato nero.

E chi monta le gomme commercializzate in nero? Quell’esercito di abusivi con garage e officine improvvisate o di operatori che, seppure autorizzati e con partita Iva, si prodigano puntualmente ad arrotondare i guadagni fuori dalle regole.

Queste operazioni, insieme ad altre forme di illegalità che qui non si ha lo spazio per accennare, hanno contribuito a creare enormi quantitativi di Pfu non coperti da contributo ambientale, che finiscono inevitabilmente per mescolarsi con quelli in regola, facendo saltare i target di raccolta dei rispettivi attori della filiera. Accade anche perché non esiste una modalità per tracciare le singole gomme e quindi, quando arrivano nei magazzini, i Pfu sono tutti uguali, come le mucche al calar della sera.

Le stime parlano di flussi di pneumatici messi illegalmente in commercio che oscillano tra le 30 mila e le 40 mila tonnellate annue. I mancati ricavi relativi al contributo ambientale sono stimabili in circa 12 milioni di euro, mentre l’evasione dell’Iva è valutabile in circa 80 milioni di euro. Per provare a contrastare queste forme di illegalità, Legambiente, Ecopneus, Ecotyre e Greentire (i tre principali consorzi di raccolta di Pfu), le associazioni di categoria Confartigianato-Imprese, Cna, Assogomma, Airp e Federpneus, hanno dato vita, nel maggio del 2016, all’Osservatorio sui flussi illegali di pneumatici e Pfu in Italia.

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I difetti del modello

Ma non è finita, perché accanto alle forme di illegalità segnalate dall’Osservatorio, si aggiungono i difetti congeniti dello stesso modello di Epr. Qui si può solo accennarne uno: la discrasia tra il contributo ambientale, che si applica alle singole gomme nuove, e i target di raccolta, che si tarano sui quantitativi definiti attraverso una stima del peso medio degli pneumatici. È però una stima del tutto fallace, considerato che persino pneumatici di identiche dimensioni ma prodotti da case diverse (e in lotti diversi) possono avere un peso differente del 20-25 per cento. Anche per ogni singolo tipo di pneumatico ci possono essere pesi completamente diversi, persino sulla base dei mesi o anni di fabbricazione, del tipo di miscele e dei singoli materiali impiegati e degli stabilimenti di fabbricazione, con oscillazioni che possono superare anche in questo caso il 10-15 per cento. Non è dunque azzardato ipotizzare un errore (in difetto) del calcolo del target che può arrivare anche al 25 per cento, contribuendo a ridurre il raggio d’azione della responsabilità estesa.

Per chi suona la campana, dunque? Suona per tutti. Se i Pfu extra target rischiano infatti di far saltare il sistema, il ministero non ha adeguati strumenti di intervento e di sanzione, perché penalizzato da una grave forma di asimmetria d’informazioni, che gli impedisce di esercitare un controllo reale, muovendosi su un piano squisitamente formale e procedurale.

Preso tra due fuochi – i gommisti con i magazzini colmi di Pfu “orfani” e i consorzi che possono raccogliere solo sulla base dei rispettivi target – il ministero ha scelto la strada più semplice, che però è anche pericolosa, perché rischia di essere un punto di non ritorno, soprattutto considerato che non affronta i problemi, li evita e basta. E se il make-up del target non dovesse funzionare?

Siamo di fronte a una vicenda paradigmatica per molti aspetti, che dovrebbe almeno far riflettere su un punto. È chiaro che nei modelli di complianceretti dalla responsabilità estesa del produttore le normali forme di controllo e repressione non funzionano: l’illegalità si può contrastare solo in via preventiva, anche con modalità di intelligence (come i profili di rischio). Come? Primo, analizzando attenuatamente il quadro di regolazione, attraverso la mappatura dei singoli processi al fine di individuare strozzature, anomalie e zone d’ombra. Secondo, migliorando la trasparenza e l’efficienza dei processi (in particolare dei dispositivi di controllo lungo tutta la filiera) e incentivando (dal lato pubblico) mercati competitivi e trasparenti per la valorizzazione reale dei Pfu (dal lato privato). Si può fare, basta volerlo.

Dire a chi vive e lavora onestamente che deve fare di più perché l’illegalità è impossibile da battere è un messaggio sbagliato. Almeno da questa prospettiva.

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  1. Luca Cigolini

    Tolleriamo il nero e tartassiamo gli onesti?
    Purtroppo non è una novità! (Grazie comunque per la documentata segnalazione)

  2. Giampaolo Vitali

    Complimenti per l’articolo, molto preciso e dettagliato.

  3. Giacomo

    Molto interessante. Queste sono distorsioni che pesano sul sistema Italia e, se non si fa niente per ridurle (o, come in questo caso), le si aumenta, allora non c’è recovery fund the tenga

  4. Lorenzo

    Un po’ come la storia della flat tax. Ora chi arranca con 15k€ paga percentualmete quanto chi ne guadagna il quadruplo. 🙁

  5. LUIGI COMANDATORE

    Per un addetto ai lavori (sono un gommista), di cui sino allo scorso hanno mi sono prodigato come migliore questo annoso problema nella mia provincia contro le discariche a cielo aperto, condivido il suo interessante articolo che tale rimarrà. Il problema è soprattutto politico, la politica ha gli occhi bendati e fa finta di nulla perché incapace.
    Dove abito, risiede la senatrice del m5s, essa era al ministero dell’ambiente, avevo riposto in questa persona l’interesse per una svolta vera e duratura, era interessata a scrivere una legge con l’apporto delle mie conoscenze, silenzio assoluto, pare che fosse interessata all’inquinamento marittimo e quello ambientale e poco a quello terrestre, pur documentata dal sottoscritto, non se ne fece più nulla, tutto caduto nel dimenticatoio.
    Secondo le mie esperienze, ai politici tutti, questo comparto non conta nulla, non porta visibilità e quindi, non porta voti.
    Al di là di ciò, se desidera approfondire gli argomenti per tentare di apportare dei cambiamenti che non siano solo articoli giornalistici, sono a sua disposizione.

  6. Federico Leva

    Situazione spiacevole, ma in linea generale non vedo nulla di scandaloso in un obbligo di ritiro superiore al 100 % dell’immesso: dopotutto ci sono decenni di arretrato da recuperare, no? Un qualche incentivo economico alla pulizia di eventuali sacche di accumulo di pneumatici usati non può che far bene, ed è giusto che il costo sia scaricato su chi compra o usa gli pneumatici nuovi. Scaricare il costo sulla fiscalità generale sarebbe un’altra forma di sussidio alle fonti fossili.

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