I cambiamenti climatici non si sono fermati con la pandemia. E dunque anche in una situazione economica molto difficile il problema non può essere ignorato. L’Europa ne è consapevole e con il Next Generation EU apre grandi opportunità di rinnovamento.
La pandemia non ferma i cambiamenti climatici
Viviamo in un periodo tra i più difficili della storia recente, pressati da una pandemia che ha già mietuto milioni di vittime su scala mondiale, condizionando profondamente la nostra vita sociale e facendo cadere la maggior parte dei paesi in una gravissima crisi economica.
Perché parlare di cambiamenti climatici in questo drammatico quadro? Che senso ha? Che rilevanza? Non possiamo mettere la problematica da parte per il momento?
I cambiamenti climatici non si sono purtroppo fermati con la pandemia. Anche se le emissioni di gas a effetto serra sono globalmente diminuite rispetto all’anno precedente — le stime del Global Carbon Project per il 2020 indicano addirittura un -6,7 per cento delle emissioni di CO2 rispetto al 2019 — la concentrazione di CO2 nell’atmosfera è aumentata di 2,5 parti per milione. Siamo oggi a una media globale intorno a 412,5 ppm, dai 270-280 ppm dei 10 mila anni prima dell’inizio della rivoluzione industriale nella metà del Settecento.
Anche se calano decisamente le emissioni, la CO2 nell’atmosfera continua a crescere: è la dura legge fisica che dobbiamo comprendere. L’unica strada per fermare la crescita della temperatura della terra è azzerare le emissioni, fermare il consumo di combustibili fossili e farlo nel più breve tempo possibile.
La CO2 è una molecola estremamente stabile che ha una vita media nell’atmosfera molto lunga, dell’ordine di centinaia di anni. Ogni molecola di CO2 derivante dalla combustione di carbone, petrolio o gas naturale che stavano sottoterra va ad aumentare la concentrazione di CO2 nell’atmosfera terrestre e a far crescere la temperatura.
L’aumento della temperatura del pianeta – e l’incredibile velocità a cui l’aumento avviene – provoca immensi rischi per la nostra società a causa della perturbazione del ciclo dell’acqua, dell’aumento di eventi meteorologici estremi, dell’innalzamento del livello dei mari e di molti altri pericoli potenziali, inclusa la tuttora incalcolabile perdita di biodiversità, ovvero l’estinzione di specie viventi che non sono o non saranno in grado di adattarsi alle mutate condizioni del clima e in particolare alla velocità con cui i cambiamenti climatici stanno avvenendo.
Un’altra tragedia climatica è avvenuta pochi giorni fa in India, con il crollo di un ghiacciaio in una diga. Lo tsunami che ha generato ha spazzato via un villaggio e qualche centinaio di vite umane. Sbagliamo se la consideriamo l’ennesima tragedia lontana da noi. Anche le nostre montagne collassano a causa della perdita di permafrost in quota e dell’aumento dei cicli di congelamento/scongelamento. Anche noi, come nei fiordi norvegesi, rischiamo nuovi Vajont.
Un’opportunità chiamata Next Generation EU
Dobbiamo quindi affrontare e risolvere il problema anche in una situazione così difficile come quella attuale? La mia risposta non è solo un sì, ma va oltre. La coincidenza con la necessità di mettere in campo misure straordinarie per uscire dalla crisi pandemica è un’occasione unica e imperdibile per avanzare con decisione verso la risoluzione della crisi climatica.
Bene ha fatto la Commissione europea a proporre uno straordinario piano di aiuti che in Italia ci ostiniamo a chiamare “Recovery Fund”, come se dovesse servire a ritornare al punto di partenza prima della pandemia. Il suo nome ben più significativo e pregnante è “Next Generation EU”, ovvero: partiamo da questa crisi per costruire il futuro, per dare alle nuove generazioni una nuova prospettiva, per costruire il mondo di domani, non di ieri.
La Commissione europea ha chiaramente indicato gli obiettivi del piano, fissando percentuali di spesa obbligatorie a favore della conversione energetica e della lotta ai cambiamenti climatici, della trasformazione digitale, dell’innovazione e dell’incremento della resilienza del sistema Europa di fronte ai pericoli non soltanto climatici, ma anche sanitari o di cybersecurity. Il piano include il rafforzamento e l’aumento di efficienza delle istituzioni democratiche, dei sistemi educativi, della giustizia e di quanto è necessario all’adeguamento dell’Europa alle sfide del futuro, non del passato.
Non per niente la Commissione von der Leyen ha preso per le corna la tematica del clima e, con la sponda del Parlamento europeo, ha fatto decidere all’Unione europea lo storico obiettivo di ridurre le emissioni del 55 per cento entro il 2030 per giungere a zero emissioni nette entro il 2050. La nuova politica climatica europea si dispiega su molti fronti – energia, trasporti, emissioni degli edifici, dell’industria, dell’agricoltura – continuando e incrementando il vasto programma per la ricerca e l’innovazione e prevedendo misure di supporto e fondi per una giusta transizione che non pesi sui più deboli.
È una politica che affronta anche il problema di come adattarsi ai cambiamenti in corso. Infatti, anche i più ambiziosi programmi di azzeramento delle emissioni ci porteranno sempre e comunque in un mondo climaticamente diverso, speriamo ben al di sotto dei 2°C di riscaldamento globale come previsto dagli accordi di Parigi, ma comunque un mondo in cui ci saranno gravi effetti negativi, a cui dobbiamo fare fronte.
C’è oggi una fenomenale opportunità di poter investire, creare lavoro, servizi e imprese per rispondere alle politiche climatiche, che dovrebbe orientarci decisamente verso una coerente riconversione ambientale, produttiva e sociale. Per fortuna non partiamo da zero, ma dobbiamo capire che è il momento di cambiare passo. I segni sono tanti e basterebbe citare un piccolo trafiletto sulla pagina economica di Repubblica del 27 gennaio, che riporta la decisione del più grande fondo mondiale – BlackRock, che ha in gestione oltre 8 mila miliardi di dollari – di investire d’ora in avanti solamente in società e in titoli di stato con alto profilo di sostenibilità climatica e ambientale.
È senz’altro istruttiva la lettura della lettera che Larry Fink, presidente e amministratore delegato di BlackRock, ha indirizzato agli amministratori delegati delle aziende quotate di tutto il mondo e, indirettamente, agli analisti, agli investitori e ai politici responsabili del budget e del debito degli stati (qui). Qui voglio mettere in evidenza il passo dove Fink dice: “(…) Inoltre, i rischi legati al clima non riguardano solo le aziende. BlackRock ritiene per esempio che anche gli emittenti di debito pubblico dovrebbero divulgare informazioni su come stanno affrontando tali rischi (…)”. Una frase di questo tipo – detta da chi ha in portafoglio una quota non indifferente del nostro debito pubblico e soprattutto da qualcuno capace di orientare i mercati – va presa molto seriamente. Credo che la lettera di Fink sia stata letta e analizzata con grande attenzione da Mario Draghi e sono certo che ne farà tesoro nel suo compito non facile di riscrittura dei progetti italiani per il Next Generation EU.
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