Il Pnrr assegna 2 miliardi per gli investimenti nella filiera dell’idrogeno “verde”. È una scelta netta, che esclude incentivi per altre varianti che hanno comunque un basso contenuto di carbonio. E sulle quali l’Italia potrebbe giocare un ruolo primario.
Una nuova parola chiave per lo sviluppo
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza – approvato il 12 gennaio dal governo e ora al vaglio del Parlamento – impegna 2 miliardi di euro per gli investimenti nella filiera dell’idrogeno. Nelle sue 167 pagine solo poco più di una (tra pagina 87 e 88) è dedicata al tema: 32 righe con molti obiettivi generici (“questo investimento mira a introdurre treni alimentati a idrogeno”, “ha l’obiettivo di riconvertire aree industriali abbandonate per testare la produzione di idrogeno”) e praticamente nessun numero.
Il dibattito di politica (economica) in Italia procede spesso intorno a parole chiave. Vent’anni fa era “innovazione, ricerca e sviluppo” o “new economy”. In tempi più recenti abbiamo visto “green” e “resilienza”. Ora “idrogeno” rischia di diventare quella parola che devi pronunciare per forza, altrimenti non sei nessuno. In realtà, questa volta potrebbe trattarsi di una vera opportunità per il futuro dell’industria italiana. Se saremo in grado di coglierla.
L’idrogeno è considerato una delle tecnologie più importanti attraverso cui conseguire gli obiettivi Ue di decarbonizzazione, come emerge dai documenti adottati sia a livello europeo sia nazionale. La sua importanza sta nel fatto che può sostituire il gas metano e altri combustibili fossili in una molteplicità di usi, in particolare industriali (inclusi i cosiddetti “hard to abate”) e i trasporti (specie pesanti, su gomma, ferro e mare). Recenti sperimentazioni mostrano che può essere mescolato al gas naturale, trasportato nei tubi esistenti e utilizzato senza alcuna modifica tecnologica né nelle infrastrutture di trasporto, né nei macchinari nei quali viene introdotto.
Prima di esultare, bisogna però considerare che realisticamente le applicazioni su scala commerciale richiederanno ancora anni, e non solo per una ragione di costi. Alla luce di questi fatti, è importante costruire una strategia che abbia caratteristiche di flessibilità e adattabilità: occorre evitare il duplice rischio di spingere le imprese italiane su sentieri di ricerca, sviluppo e innovazione che a posteriori potrebbero rivelarsi deludenti e di sperperare denaro pubblico. Come più volte accaduto in passato, anche in tema energetico.
I colori dell’idrogeno
Da questo punto di vista, nonostante ammetta esplicitamente di non avere ancora finalizzato una compiuta strategia, il Pnrr compie però una scelta tecnologica, manifestando una predilezione per l’idrogeno cosiddetto verde. Una scelta così netta ha un impatto immediato sugli investimenti delle imprese, indirizzandole già verso uno specifico processo produttivo.
L’idrogeno, infatti, non esiste in natura in forma pura: deve essere prodotto e la maniera in cui questo avviene definisce, convenzionalmente, il “colore” che gli viene attribuito. Se è ricavato dal metano attraverso lo steam reforming è detto grigio. Quando, a valle, è prevista la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica – con un abbattimento delle emissioni attorno al 90 per cento – allora si parla di idrogeno blu. Alternativamente, si può ricavare l’idrogeno dalla molecola dell’acqua (H2O) attraverso l’elettrolisi, un processo fortemente energivoro: si parla, allora, di idrogeno giallo, il cui contenuto carbonico dipende dal mix di generazione sottostante. Se l’energia elettrica viene interamente da fonti rinnovabili l’idrogeno è detto verde, mentre è indicato dal colore rosa (o viola) se è di origine nucleare.
In estrema sintesi, l’idrogeno grigio ha un elevato contenuto carbonico; quello giallo moderato; quello blu molto basso, mentre il verde e il rosa sono del tutto privi di emissioni.
La sostituzione dei combustibili fossili con l’idrogeno ha, dal punto di vista ambientale, due obiettivi: eliminare le emissioni dal luogo dove l’energia viene consumata (per esempio, il motore di una nave o il forno di un’acciaieria) e ridurre le emissioni in atmosfera in valore assoluto. Per questa ragione, appare sensato escludere da eventuali schemi di incentivazione l’idrogeno con alto tenore carbonico (nero o grigio). Ma la vera domanda è: siamo sicuri che sia altrettanto ragionevole escludere anche quello con basso (giallo) o bassissimo (blu) contenuto di carbonio?
Per rispondere, occorre tenere presenti due fatti ulteriori. Il primo relativo al costo, il secondo alle possibili ricadute sul sistema industriale.
Costi e ricadute sull’industria
In primo luogo, dal punto di vista dei costi, l’idrogeno blu è più competitivo del verde: il costo medio attualizzato si colloca attorno agli 1,7 euro kg, contro i 3,5-5 euro/kg dell’idrogeno verde. Quindi il verde costa dalle due alle tre volte di più del blu. Il divario è destinato a chiudersi tra il 2030 e il 2050. Peraltro, sarebbe assurdo – in Italia – scatenare una competizione sull’uso delle fonti rinnovabili (se cioè destinarle alla rete elettrica o alla produzione di idrogeno), il cui esito sarebbe quasi solo dipendente dalla generosità degli incentivi che si sceglierà di mettere a disposizione.
Ma c’è un secondo tema, altrettanto importante: la differenza tra l’idrogeno blu e grigio, in termini di contenuto di carbonio, dipende interamente dall’efficacia, efficienza e costo dei sistemi di cattura e stoccaggio (e futura utilizzazione) della CO2. Questa tecnologia è una specie di santo Graal dei sistemi energetici, perché consente di rendere molto più sostenibile l’utilizzo dei combustibili fossili. Per una serie di motivazioni – tra cui l’esistenza di giacimenti esausti che possono essere usati come serbatoi di CO2 – l’Italia, che ha perso il treno della produzione di fonti rinnovabili, può invece giocare un ruolo da protagonista nella Ccs (carbon capture and sequestration), intercettando tra l’altro un altro filone tecnologico promosso dalla Ue per perseguire la decarbonizzazione. Che fare della CO2 sequestrata? Qui si apre un altro sentiero di ricerca, su cui il nostro paese potrebbe e dovrebbe impegnarsi. Per esempio, c’è chi lavora sul suo impiego nella produzione di polimeri o di materiali per l’edilizia o, ancora, su come fissarla su microalghe per ottenerne biocarburanti.
In sintesi, la strategia nazionale (ed europea) sull’idrogeno dovrebbe rispondere a due domande: ha senso prevedere incentivi specifici per questo combustibile? A quali condizioni? Sulla prima questione, Bruxelles ha già risposto e non sembra esserci spazio per ripensamenti. L’enfasi si deve dunque spostare sul secondo tema. Incentivare solo l’idrogeno verde rischia di spingere l’industria italiana in una direzione complessa, dove partiamo senza grandi vantaggi competitivi: i due fattori principali stanno infatti nella produzione di tecnologie rinnovabili (nei quali ormai siamo follower) e di elettrolizzatori (su cui potremmo avere ancora qualcosa da dire).
Per quanto riguarda l’idrogeno blu, invece, l’Italia può giocare un ruolo primario per la maturità della sua industria manifatturiera, sia per lo sviluppo della Ccs. Naturalmente, ha senso prevedere incentivi differenziati, per tener conto del fatto che il “verde” è del tutto carbon-free, mentre il “blu” ha un contenuto, seppur limitato, di carbonio. Precludersi questa strada solo in virtù di un furore ideologico per le “emissioni zero” farebbe perdere molte opportunità alla transizione ecologica e all’industria italiana.
La decarbonizzazione è una missione complessa che deve mobilitare ogni capacità innovativa. Sarebbe del tutto incomprensibile sbarrare proprio quei sentieri nei quali possiamo far leva su un preesistente vantaggio competitivo.
* Luigi Marattin è deputato di Italia Viva.
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