La proposta di direttiva europea sul salario minimo adeguato riconosce il ruolo cruciale della contrattazione collettiva. Sotto questo profilo l’Italia è in regola. Ma restano aperte alcune questioni rilevanti, che richiedono un riordino della normativa.
La proposta europea
La proposta di direttiva sul salario minimo adeguato è un importante passo avanti della politica sociale europea poiché chiarisce che la concorrenza nel mercato unico non può giocarsi sul dumping salariale, reso possibile dagli elevati differenziali del costo del lavoro tra stati membri, ma va giocata su innovazione, produttività e standard sociali elevati; e chiarisce che è un preciso obiettivo dell’Unione lottare contro la povertà e le disuguaglianze crescenti, spingendo verso l’alto le retribuzioni.
L’assunto di fondo, sostenuto con forza dalla European Trade Union Confederation, è che il miglior strumento per elevare i salari è la contrattazione collettiva settoriale o intersettoriale (non decentrata) poiché nei sei paesi, tra cui l’Italia, in cui il salario è da essa determinata si ha una percentuale inferiore di lavoro povero, minori diseguaglianze e retribuzioni più alte. Per contro, nella maggior parte degli stati in cui è determinato dalla legge, il salario minimo risulta inferiore al 50 per cento della retribuzione oraria media lorda e al 60 per cento di quella mediana, con punte che sfiorano il 40 per cento in Romania, Ungheria, Estonia, Lettonia, Irlanda, Malta e Repubblica Ceca. È specialmente a questi paesi che la direttiva si rivolge: sollecita, da un lato, il rafforzamento della contrattazione collettiva e, dall’altro lato, l’introduzione di criteri generali chiari e di un sistema di governance trasparente, fondato sul coinvolgimento delle parti sociali, al fine di assicurare che i salari minimi non siano il frutto di una scelta politica discrezionale calata dall’alto, ma il risultato di una procedura che parte dalla consultazione dei sindacati o di organismi a composizione mista, come avviene in Francia e soprattutto in Germania.
Due disegni di legge italiani
Rispetto alla situazione italiana, la proposta Ue solleva alcuni interrogativi. In primo luogo, l’assunto di fondo, per cui il salario minimo determinato dalla contrattazione collettiva è cosa buona, si adatta davvero alla situazione italiana? Non del tutto, se si considerano i problemi che sono da alcuni anni al centro del dibattito parlamentare: la crescita del lavoro povero e del fenomeno dei sotto-minimi, i contratti pirata, la moltiplicazione incontrollata delle categorie e dei contratti collettivi nazionali (935 a giugno 2020), che alimenta la concorrenza al ribasso persino tra Ccnl stipulati da sigle indubbiamente rappresentative. Basti pensare a una recente sentenza del Tribunale di Torino che, nel settore della vigilanza e dei servizi fiduciari, ha disapplicato la retribuzione minima definita da Cgil, Cisl e Uil, pari a 6,16 euro lordi all’ora, definendola inferiore alla soglia di povertà assoluta indicata dall’Istat e, dunque, non conforme ai principi di sufficienza e proporzionalità della retribuzione sanciti dall’articolo 36 della Costituzione.
Questi problemi sono affrontati dai due disegni di legge, a prima firma Nunzia Catalfo e Tommaso Nannicini, ed è auspicabile che il dibattito parlamentare prosegua e non sia, per paradosso, frenato dalla proposta di direttiva.
Un’indicazione importante si ricava anche dall’articolo 10 della direttiva, che chiede a tutti gli stati membri di attribuire a una autorità competente – che da noi potrebbe essere il Cnel – il compito di monitorare e verificare sia l’adeguatezza dei salari legali e contrattuali sia la percentuale di copertura della contrattazione collettiva (nel nostro paese stimata attualmente intorno all’80 per cento).
Un secondo interrogativo è se, nel contesto descritto, vi sia lo spazio per l’introduzione in Italia di un salario minimo legale, di cui si trova traccia in entrambe le proposte legislative citate. La direttiva non lo impone, ma neppure lo vieta. Tuttavia, rispetto ai Ddl presentati, potrebbero essere necessari alcuni aggiustamenti. In particolare, il disegno di legge a prima firma Catalfo – che introduce un salario minimo orario legale pari a 9 euro lordi, parametrati sul trattamento economico complessivo – al contrario di quanto stabilito nella proposta di direttiva, non prevede quali siano i criteri e gli elementi oggettivi in base ai quali si arriva a fissare tale cifra (potere d’acquisto dei salari, andamento della produttività, costo della vita, incidenza delle imposte) né istituisce un sistema di governance fondato sul coinvolgimento delle parti sociali.
I problemi aperti
Né la direttiva, né i Ddl in cantiere affrontano, tuttavia, due problemi rilevanti nello scenario contemporaneo. In primo luogo, la crescita del lavoro autonomo povero. La direttiva si applica ai lavoratori subordinati e anche, molto probabilmente, ai collaboratori etero-organizzati e ai “falsi lavoratori autonomi” che possono essere inclusi nell’ampio concetto di “worker” definito dalla Corte di giustizia. Non include, invece, i lavoratori autonomi genuini, toccati dal problema della povertà tanto e forse più di quelli subordinati. Occorre riconoscere ai lavoratori autonomi, in situazioni di fallimento del mercato, il diritto alla contrattazione collettiva e, probabilmente, laddove è più difficile individuare una controparte contrattuale, ragionare sulla possibilità di fissare parametri legislativi generali sulla base dei quali valutare l’adeguatezza dei compensi.
Il secondo problema riguarda gli appalti pubblici e privati. Se l’articolo 9 della proposta di direttiva mette al sicuro, in un certo senso, le importanti norme anti-dumping introdotte nel Codice dei contratti pubblici del 2016, non risolve tuttavia il problema della concorrenza al ribasso tra Ccnl con categorie e ambiti di applicazione sovrapponibili all’interno della stessa filiera produttiva. Ad esempio, nella filiera dell’igiene ambientale, il ricorso a contratti di appalto e subappalto può fare sì che al lavoratore che si occupa del trasporto e dello smaltimento rifiuti venga applicato un Ccnl firmato dalle organizzazioni sindacali più rappresentative, ma che prevede una retribuzione sensibilmente inferiore rispetto a quella applicata, in base a un contratto collettivo diverso, al lavoratore che interviene nella fase della raccolta. Per risolvere il problema occorrerebbe ritornare alla regola della parità di trattamento negli “appalti interni” (già prevista dalla legge n. 1369/1960), da intendersi oggi come appalti da eseguirsi nell’ambito del medesimo ciclo produttivo.
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