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Fine di Quota 100. E dopo?

Gli effetti negativi di Quota 100 si protraggono oltre i tre anni della sua esistenza. Occorre risolvere i problemi di equità creati dalla misura e introdurre nel mercato del lavoro una flessibilità in uscita sostenibile. Approfittando anche del Recovery Plan.

I danni di Quota 100

L’autunno è la stagione delle pensioni. Quest’anno l’immancabile discussione sul riassetto del sistema pensionistico italiano è schiacciata tra la scadenza naturale di Quota 100, nel 2022, e le risorse del Recovery Fund. Con all’orizzonte l’incertezza del mercato del lavoro post-Covid.

L’esperienza di Quota 100 è stata disastrosa. Introdotta nel 2018 dal governo Lega-Movimento 5 Stelle, dopo che i due partiti ne avevano fatto un cardine della loro campagna elettorale, la misura di pensionamento anticipato aveva l’obiettivo di cancellare la riforma Fornero. Il costo iniziale ipotizzato dal governo era di 18 miliardi di euro in tre anni, per consentire a circa 300 mila lavoratori di anticipare il momento del pensionamento. I tagli previsti alle pensioni erano modesti, derivanti quasi esclusivamente dalla riduzione del numero di anni di contributi versati. Secondo i maggiori proponenti, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, Quota 100 avrebbe dato vita a una staffetta generazionale, consentendo ai giovani di occupare i posti di lavoro liberati dai “quotisti” – i lavoratori anziani, che usufruivano del provvedimento.

La realtà è stata molto diversa. Insieme ad altre misure (come la sospensione dell’indicizzazione dell’età di pensionamento alla longevità attesa), Quota 100 ha contributo a aumentare il rapporto tra spesa pensionistica e Pil, portandolo al 15,8 per cento nel 2020 contro una previsione del 15,1 per cento formulata nel luglio 2018. Eppure, l’utilizzo di Quota 100 è stato inferiore alle aspettative – secondo la Corte dei conti pari al 60 per cento dei pensionamenti ipotizzati nella relazione tecnica di accompagnamento alla legge. Malgrado la generosità della misura, che non prevedeva riduzioni sulla parte retributiva della pensione, molti lavoratori anziani hanno preferito continuare a lavorare, soprattutto al Nord. Inoltre, come ampiamente previsto da molti e come sancito anche da Banca d’Italia e dalla Corte dei conti, Quota 100 non ha dato vita a staffette generazionali. Il prepensionamento è stato a favore di chi ha potuto permettersi di andare in pensione prima con un assegno dignitoso: ancora una volta lavoratori uomini con elevata anzianità contributiva. Ma soprattutto è stato un regalo alle grandi imprese nel settore dei servizi, che hanno potuto evitare i costosi meccanismi legati ai fondi di solidarietà per trasferire il costo della gestione della forza lavoro sul bilancio pubblico.

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Il legame con il Recovery Plan

Gli effetti negativi di Quota 100 non si limitano però ai tre anni della sua esistenza. Sono persistenti. La misura lascia in eredità un enorme scalino. Senza ulteriori riforme, alcuni avranno potuto usufruire di Quota 100 andando in pensione a 62 anni con 38 anni di contributi e altri invece, magari solo per essere nati pochi giorni dopo, non avranno raggiunto a tempo la fatidica quota e dovranno aspettare quasi cinque anni per andare in pensione, a 67 anni o con 42 e 10 mesi di contributi. Per superare definitivamente Quota 100 occorre quindi risolvere i problemi di equità che la misura ha creato e introdurre nel mercato del lavoro una flessibilità in uscita che sia sostenibile.

Sostenibilità e resilienza sono parole chiave anche nel Recovery Plan, che nella lista degli obiettivi include “reskill and upskill” (riqualificazione e aggiornamento) – dunque investimenti in capitale umano. Il legame tra la fine di Quota 100 e l’inizio del Recovery Plan è proprio lì. Aumentare la produttività nel mercato del lavoro di una società che invecchia è un obiettivo perseguibile con il Recovery Plan, attraverso una combinazione di investimenti e riforme. Investimenti finalizzati a sostenere la funzione e la produttività dei lavoratori anziani. Riforme volte a consentire ai lavoratori un’uscita anticipata dal mercato del lavoro, ma senza gravare sul bilancio dello stato.

L’esperienza del lockdown primaverile ha mostrato benefici e limiti dello smart working. Questa forma di organizzazione del lavoro ben si presta alle esigenze di alcuni lavoratori anziani, poiché consentirebbe loro una maggiore flessibilità nella gestione della giornata lavorativa e contemporaneamente minor costi alle imprese. Affinché possa funzionare a regime, e non solo in emergenza, sono tuttavia necessari investimenti. Non solo in dotazioni informatiche, ma anche in formazione tecnica e organizzativa che consenta ai lavoratori anziani (e non) di adattare il loro capitale umano alle nuove forme organizzative. Dunque, un’importante operazione di re-skilling dei lavoratori anziani. Ulteriori investimenti andrebbero pensati per la prevenzione sanitaria dei lavoratori over 55 (e non solo) e per permettere la rimodulazione delle postazioni di lavoro al fine di migliorare la vita lavorativa – e la produttività – degli over 60.

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Agli investimenti vanno affiancate riforme che consentano ai lavoratori anziani un’uscita flessibile dal mercato del lavoro, ma senza ulteriori costi per il bilancio pubblico, dopo quelli imposti da Quota 100. Non appartengono a questa logica le proposte fin qui discusse: Quota 102 (ovvero l’età minima a 64 anni e 38 anni di contributi) o la pensione anticipata con 41 anni di contributi. I dati sull’utilizzo di Quota 100 suggeriscono che entrambe avrebbero costi ingenti (attorno ai 10 miliardi di euro), già dal primo anno. Non è la direzione da seguire. I vincoli di bilancio, congelati durante questo strano anno di Covid, riprenderanno a mordere dal prossimo. Non è un caso che Quota 100 sia stata protagonista, in negativo, anche nella negoziazione europea sul Recovery Fund.

Occorre pensare a strumenti alternativi, che riportino il sistema pensionistico italiano verso lo schema contributivo con flessibilità in uscita originariamente disegnato dalla riforma Dini – o che si avvalgano del mercato per consentire l’uscita anticipata del lavoratore. Nel primo caso, si tratterebbe di passare al calcolo contributivo per chi vuole anticipare il pensionamento – sull’esempio di Opzione Donna, possibilmente con una parte della penalizzazione a carico dell’imprese. È una soluzione che non aumenta il debito pensionistico complessivo, ma richiede esborsi di cassa immediati che potrebbero non essere compatibili con i vincoli di bilancio. In alternativa, si potrebbe pensare a un anticipo pensionistico aziendale, sull’esempio dell’Ape volontario, in cui lavoratori e imprese si fanno carico, in proporzioni da definirsi, delle spese per interessi e del premio assicurativo.

La scadenza di Quota 100 ci presenta un problema, le risorse del Recovery Fund ci danno un’opportunità. Sta a noi saperla cogliere.

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20 commenti

  1. Savino

    Aveva ragione la prof.ssa Fornero, bisogna garantire ai nostri giovani oggi il lavoro dignitoso e domani delle dignitose pensioni. Invece qui gli scostamenti di bilancio sono all’odg, tanto Pantalone sono i figli e i nipoti.

  2. Michele

    re-skilling, ma di cosa stiamo parlando? La regione FVG ha basato TUTTE le sue politiche attive sui lavoratori disoccupati. Se non sei disoccupato non accedi a nessun tipo di FORMAZIONE e nemmeno al programma di CERTIFICAZIONE DELLE COMPETENZE. Quindi quelli che vorrebbero continuare a lavorare ma non si trovano bene con quello che stanno facendo sono costretti a cercare ogni possibile via di fuga dal lavoro.
    Non dico che sia sbagliato sostenere chi non ha il lavoro e chi ha problemi anche seri a livello personale, ma non dare NESSUNA possibilità a chi vorrebbe crescere e reinventarsi mi sembra proprio stupido.
    P.S. ho 57 anni e 40 anni di contributi, mi piacerebbe lavorare ancora 10 anni ma se mi fanno andare in pensione, anche con il 40% di penalizzazione, CI VADO!!

  3. Giuseppe

    Penso che sarebbe utile riattivare la APE volontaria, semplificando la procedura di domanda ed erogazione.

  4. Alessandro

    Io leggo cose diverse. DAL SITO INPS. Pubblicato il Rendiconto generale INPS per il 2019
    • le entrate contributive passano da 231.166 nel 2018 a 236.211 milioni di euro nel 2019, con un incremento di 5.045 milioni di euro (+2,2%);
    • nel 2019 la spesa complessiva riferita alle prestazioni pensionistiche, che include anche la componente di natura assistenziale, è pari a 262.299 milioni di euro e rappresenta il 14,7% del Prodotto interno lordo (PIL);
    Essendo netti i contributi e lorde le pensioni, sulle pensioni si guadagnano 40 miliardi di euro.
    A che serve mettere vecchi contro giovano, centoquotati rispetto ad altri pensionandi?

  5. Alberto Isoardo

    Mi fanno sorridere questi attacchi a quota 100 quando le prime a non volere persone anziane sono le aziende stesse. Inoltre la difesa ad oltranza della legge Fornero conni problemi che ha creato fa a pugni con gli accordi che i governi fanno con i grandi gruppi (vedi le banche). In pratica per i bocconiani dovrebbero essere penalizzati solo quelli che lavorano nelle piccole e medie imprese.
    L’altra incongruenza è l’incapacità di comprendere che in mondo che cambia rapidamente servono soluzioni alternative. Poi è vero probabilmente i professori universitari non si stressano, beati loro, ma non li stesso per gli altri lavori partivolarnrnte nel privato. Ci sono cambiamenti caratteriali che solo i ciechi non riescono a vedere e questi cambiamenti mal si prestano ai lavori in team.
    Insomma servirebbe ipotizzare una società che riesca a trarre beneficio dalle esperienze lavorative di chi va in pensione ed anche un vsntaggio ecomomico per la collettività guori dalle aziende di provenienza.
    Insomma serve uno sforzo di fantasia se non si vuole finire come la Fornero sempre in televisione a ripetere le stesse cose!

  6. Rony Hamaui

    Quota 100 va abrogata subito senza preoccuparsi troppo dei così detti problemi di equità. E’ un provvedimento dannoso e costoso che andava cancellato dal giorno 1 del governo Conte 2

  7. Giorgio Radin

    … e tutti i contributi versati all’Inps in circa 40 anni dove sono finiti? Non ritengo giusto colpevolizzare chi dopo 40 anni circa di contributi versati decide di andare in pensione dicendogli che saranno i suoi figli a mantenerlo! Secondo aspetto: se una ditta decide di non rimpiazzare chi va in pensione vuol dire che il dimissionario era di troppo: pensiamo anche ai costi che una ditta deve sostenere e non solo ai dipendenti!

  8. Giacomo

    Che cosa c’entra il recovery fund? Ha veramente senso utilizzarlo per pagare delle pensioni anziché per risanare l’Italia?

  9. Giuseppe GB Cattaneo

    Credo che problema posto dal succedersi di riforme delle pensioni sia irresolubile nei termini attuali.
    Se si facesse un reddito universale di base unito ad una flat-tax unito ad una pensione di base contributiva ma obbligatoria ed un secondo pilastro di mercato forse se ne potrebbe uscire. Ma ciò richiede un lavoro di progettazione multidisciplinare

    • gianpaolo tessari

      Il reddito universale di base in uno Stato che non riesce a smaltire rifiuti, aggiustare fogne ed acquedotti ed a garantire un minimo di ordine pubblico è pura follia. Non capisco il ruolo della flat tax, che notoriamente avvantaggia i redditi elevati e non certamente i comuni lavoratori. L’unica strada da percorrere sono i fondi prensione privati, anche questi appannaggio di lavoratori a reddito medio-alto.

  10. Roberto

    Quota 100 ha risposto all’esigenza di tanti lavoratori che non ritengono giusto lavorare più di 40 anni oppure dopo i 65 anni. Tutto ciò è aggravato dal fatto che gli orari di lavoro in Italia rispetto a tanti altri paesi europei sono superiori e fare un part time, ammesso che te lo concedano, significa essere poveri.
    Quindi finché gli orari di lavoro non rientrano nella media europea come i salari, chi offrirà la prospettiva di pensioni anticipate avrà consistenti riscontri nelle elezioni nazionali.

    • Gianpaolo

      Mi scusi il governo prevedeva di spendere 18 miliardi per 300000 persone (60.000) euro a testa per mandarli in pensione prima.? Investirli in asili nido per consentire l’occupazione femminile sarebbe stato preferibile. O nella ricerca, nella scuola. In opere pubbliche, bonifiche, restauri. Tale misura avrebbe avuto senso se fosse stata rivolta a lavoratori invalidi o sottoposti a lavoro usurante o pericoloso. Ne hanno beneficiato anche comuni impiegati pubblici e privati, ben protetti in uffici riscaldati in inverno e condizionati in estate. Questo non è un paese serio e civile

  11. Non sono un esperto del tema ma mi permetto di esprimere la mia opinione.
    A parte il discorso sull’equità che può essere condivisibile ma che va applicato a tutti i provvedimenti temporanei, l’analisi presentata mi sembra parziale e di breve periodo, basata su calcoli contabili piuttosto che sulla necessità di inquadrare il problema in un contesto più generale ed attuale.
    Mantenere al lavoro, in questa fase storica contrassegnata dalla rapida innovazione digitale e dal radicale mutamento delle professionalità richieste, persone ultrasessantenni con produttività più bassa (al netto di processi di “reskill and upskill”, che non ridanno necessariamente le motivazioni) e stipendi più alti rispetto agli analoghi ventenni e trentenni è davvero meno costoso per il sistema? Vale la pena non “approfittare” dell’enorme potenzialità del nuovo “esercito di riserva”, ovvero i tanti giovani che sono costretti a portare le loro competenze all’estero o rientrano nella famigerata categoria dei NEET?
    Da altra angolazione, l’aumento dell’aspettativa di vita va necessariamente tradotto in aumento dell’età pensionabile? O forse potrebbe essere piuttosto auspicabile una sua riduzione, in modo da lavorare meno ma lavorare (quasi) tutti (anche considerando che oggi sempre più il lavoratore 60enne ha i genitori 80enni o 90enni fortunatamente ancora in vita a cui badare)? Aumentando, al contempo, il benessere individuale e la coesione sociale anziché esacerbare la conflittualità generazionale?

    • Andrea

      Non ho risposte certe. Qualche spunto che potrebbe essere anche campato in aria.
      A: Mandare in pensione gente che può lavorare non so che effetto abbia sulla produttività, ma sicuramente non aumenta la produzione, quindi impoverisce il paese nel complesso.
      B: I giovani puoi assumerli anche senza licenziare gli anziani. Più gente lavora più posti di lavoro si creano (anche in maniera diversa: in genere un nuovo imprenditore “crea” più posti di lavoro di un nuovo barista). In genere, l’unico settore dove per assumere sei costretto a pensionare sono le PA, ma anche lì se mancano i medici o non fai i concorsi per gli insegnanti, i giovani non li assumi.
      C: I giovani scelgono di andare all’estero per ragioni legittime.
      D: Sarà difficile lavorare meno se ogni generazione siamo una frazione di quella precedente e immigrati non ne vogliamo.
      E: Sarebbe bello nonostante tutto poter andare in pensione gradualmente, lavorando un po’ meno con il passare del tempo, oppure passando ad altre mansioni.
      F: Dovremmo imparare da altre parti dove si concilia meglio vita e lavoro. Sia per occuparti del genitore 80enne, che per occuparsi del figlio di 3 anni (vedi lettera (C) e questioni di genere). Qui sta alla società cambiare però.

      • gianpaolo tessari

        Alcuni economisti propongono la riduzione della giornata lavorativa a 4 o 5 ore e non più a 8 ore. Sono convinto che lavorare meno ma in migliori condizioni aumenti la produttività ed il benessere del lavoratore. Non è chiaro se si possa manterrete lo stesso livello retributivo o se lo stipendio vada ridotto (ridurre uno stipendio di 3000 euro è possibile, un di 1200 o 1500 appare poco realistico) e quali sarebbero i costi per i datori di lavoro (contributi ecc….)

  12. Paolo

    I dati presentati così sono fuorvianti:
    – l’aumento del rapporto spesa pensioni/pil per il 2020 è da imputare in larga misura al crollo del pil causa covid
    – la staffetta generazionale ben difficilmente può avvenire se l’Italia perde 9 punti di pil nel 2020 sempre a causa del covid
    – quanto allo scalone, certamente esso esiste ma proprio perchè quota 100 non è stata rinnovata
    – il problema pensioni non può essere visto solo in un’ottica contabile

  13. Andrea

    Non si chiama Recovery Fund, ma NextGen EU. Non OldGen EU. Non usatelo per i 60enni, usatelo per chi deve ancora nascere oggi. Diverse coppie che conosco non vogliono fare figli per timore che questi vivrebbero in un mondo peggiore. Se usate così Next Gen EU aspettatevi che l’Italia si spospoli.

  14. Francesco M.

    Mentre mandiamo in pensione, con il regime retributivo, dei 62enni con 38 anni di lavoro, a me l’INPS dice che andrò (forse, se le cose non peggiorano) in pensione nel 2036, a 68 anni e con 40 anni di lavoro, con il regime contributivo. Quindi, sì: si tratta di un conflitto tra generazioni, poche storie. Un bel regalo che i giovani fanno ai vecchi.

  15. Io in effetti trovo che si dovrebbe cercare di rispettare la logica della transizione al contributivo, che non dovrebbe prevedere affatto un’età minima pensionabile, e semmai si dovrebbe trovare un modo equo per “convertire” le residue annualità retributive in un monte contributi attualizzati. A quel punto, a patto che l’ammontare della pensione superi un minimo, si dovrebbe poter andare in pensione a qualunque età, ovviamente con un calcolo attuariale del valore della pensione.
    Sarebbero magari in pochi a potersi permettere di andare in pensione, poniamo, con l’equivalente di una “quota 100”, ma sarebbe forse un modo di liberarci finalmente del feticcio dell’età della pensione. Si va in pensione quando si matura una pensione sufficiente.

  16. Berto

    Dopo i 60 si e’ vecchi. 1/3 non arrivera’ ai 70. Ai giovani basta ricordare che si troveranno strade, marciapiedi, ponti, ferrovie ,case, ospedali ,scuole pagati col lavoro e con le tasse del pensionandi. O devono ricevere tutto gratis ?

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