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Decreto liquidità: ecco chi ci ha guadagnato

Il sistema bancario ha usato tre quarti delle garanzie pubbliche per ridurre i propri rischi e solo un quarto per aumentare la liquidità delle imprese. Ma la misura è stata utile perché è meglio se lo stato aiuta banche e imprese quando sono ancora vive.

L’intervento per aumentare la liquidità

Non senza una punta di orgoglio, qualche giorno fa l’Abi (Associazione bancaria italiana) dichiarava che le richieste di copertura inviate dalle banche al Fondo di garanzia per le Pmi raggiungeranno prima del previsto l’obbiettivo di 100 miliardi di euro indicato dal governo. In effetti il 6 ottobre, le richieste avevano superato gli 88 miliardi di euro e continuano a crescere a ritmo sostenuto, così che già ora oltre un milione di imprese hanno beneficiato della liquidità fornita grazie alle coperture del Mediocredito centrale. Vanno poi aggiunti i più di 15 miliardi di garanzie richieste alla Sace a favore delle imprese più grandi nell’ambito del cosiddetto programma “Garanzia Italia”.

In prima battuta, si tratta di uno straordinario successo, a discapito delle iniziali difficoltà e dello scetticismo che aveva accompagnato il varo del decreto “Cura Italia” (Dl n. 18 del 17 di marzo) e del decreto “Liquidità” (Dl n. 23 dell’8 aprile 2020) da parte dell’opinione pubblica e di alcuni settori industriali, che lamentavano la complessità dell’iter autorizzativo.

Al fine di dare una più compiuta valutazione del provvedimento rimangono tuttavia alcune questioni da chiarire: 1) quanta nuova liquidità sia effettivamente arrivata alle imprese; 2) quali benefici abbiano tratto le banche, tanto da stimolarle a comportarsi in maniera così virtuosa lavorando più di un milione e centomila pratiche in pochi mesi; 3) quali oneri si stia assumendo lo stato.

Benché le informazioni a nostra disposizione siano ancora incomplete, tentiamo di dare una prima approssimativa risposta.

Gli effetti sul credito

Gli impieghi erogati dalle banche alle società non finanziarie sono cresciuti di circa 15,4 miliardi dalla fine di aprile, data di avvio delle prime operazioni garantite, sino alla fine di agosto, ultimo dato disponibile. Nello stesso arco di tempo, il credito erogato dalle banche con garanzie pubbliche concesse da Mediocredito centrale e Sace ammontano a oltre 63 miliardi.

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In prima approssimazione, potremmo concludere che il sistema bancario ha usato più di tre quarti delle garanzie pubbliche per ridurre i propri rischi e solo un quarto sono state utilizzate per aumentare la liquidità delle imprese. Rispetto al conseguimento dell’obbiettivo prima ricordato, potremmo meccanicamente stimare che le piccole e medie imprese italiane avranno ottenuto nuova finanza per poco meno di 25 miliardi dei circa 100 miliardi di garanzia ricevuti dagli istituti di credito.

Questo non significa che il decreto “Liquidità” non abbia raggiunto il suo obiettivo. Infatti, è molto probabile che se non fosse stato emanato le banche avrebbero drasticamente ridotto il credito alle imprese, con ovvie conseguenze sull’apparato produttivo e sulla caduta del Pil. Tuttavia, è evidente che anche le banche abbiano tratto grande vantaggio dal decreto “Liquidità” e ciò forse spiega la solerzia con la quale si sono mosse.

Più nel dettaglio, al di là della riduzione del rischio di credito, assumendo che mediamente gli impieghi bancari abbiano un assorbimento di capitale pari all’8 per cento (il calcolo è in parte sopravalutato poiché da Basilea 2 in poi questo dipende dal rating delle imprese, dalla probabilità di default e dalla perdita attesa in caso di default) possiamo stimare che le banche abbiano risparmiato poco più di 8 miliardi di capitale. Assumendo poi che il margine sugli impieghi sia stato mediamente attorno al 2 per cento e che la durata media dei prestiti erogati sia di poco più di sei anni, il beneficio in termini di margini di intermediazione si aggira attorno ai 12 miliardi in tutto il periodo dell’operazione. Infine, è utile ricordare che un aumento degli impieghi permette alle banche di indebitarsi a tassi più vantaggiosi presso la Banca centrale europea. Un bell’aiuto per il sistema bancario, che tuttavia si troverà ad affrontare la peggiore crisi del secolo – tassi estremamente ridotti e crediti in default destinati a crescere – quando, tra la fine di quest’anno e il prossimo gennaio, 300 miliardi di moratorie concesse verranno a scadere. In fondo è meglio che lo stato aiuti le banche quando sono ancora vive e fanno il loro mestiere di concedere credito, seppure ampiamente garantito, che salvarle quando finiscono in stato d’insolvenza.

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Il costo per lo stato

Quale sarà invece il costo della manovra per lo stato? Ovviamente dipende da quale sarà il tasso di sinistrosità delle garanzie concesse. Da questo punto di vista, le relazioni tecniche di accompagnamento ai decreti “Cura Italia” e “Liquidità” prevedevano un utilizzo di risorse pubbliche pari a poco più di 5 miliardi. Probabilmente saranno insufficienti, anche se il vero costo della manovra lo conosceremo fra qualche anno. A titolo di esempio ricordiamo che lo scorso mese il consiglio di gestione del Fondo di garanzia delle Pmi, sulla base di alcune stime e per soddisfare tutte le richieste ricevute, ha deciso di ridurre la percentuale di accantonamento sui prestiti fino a 30 mila euro: dal 30,2 per cento a una percentuale che oscilla fra il 18,9 e l’8,4 per cento, a seconda del fatturato dell’impresa.

Alla scadenza di ogni misura straordinaria aumentano le pressioni perché venga prorogata e in molti casi diventi addirittura permanente. È probabile che anche questa volta, a fine dicembre, quando i termini del decreto “Liquidità” scadranno, specialmente se la pandemia continuerà a imperversare, aumenteranno le pressioni perché il meccanismo di assicurazione possa essere allungato o meglio ampliato, poiché oramai molte imprese hanno raggiunto il tetto massimo erogabile. Sempre che l’Unione europea lo permetta, si tratterà ancora una volta di decidere come sostenere il desiderio di aiutare banche e imprese in un periodo particolarmente complicato senza rischiare di far venire meno i meccanismi che regolano il mercato del credito e senza aumentare troppo gli oneri dello stato, che di fatto è diventato il grande assicuratore di ogni rischio.

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Nobel 2020: la lezione di Milgrom e Wilson

  1. Henri Schmit

    Varrebbe la pena studiare questo in dettaglio, sia per quello che è stato fatto (l’articolo), sia per quello che si dovrebbe fare per essere più efficienti ed equi. Sussidi a fondo perduto e garanzie pubbliche a prestiti bancari a pioggia non sono una soluzione, sono dannosi, creano zombies, ed iniqui. Negli USA c’è un grave peggioramento della qualità degli impieghi bancari. Da noi non può andare diversamente, a meno che lo Stato (noi contribuenti) si accolli tutto l’onere degli aiuti. Le banche sono il principale intermediario per selezionare gli investimenti finanziabili, anche in fasi crisi. Lo Stato farebbe bene garantire sempre solo una quota. Quanto alle imprese l’effetto inevitabile della crisi è un peggioramento del rapporto debito/capitale. L’unica soluzione è un apporto massiccio di capitale fresco. Lo stato invece di dare sussidi dovrebbe agevolare fiscalmente la canalizzazione del risparmio (accumulato durante la pandemia) verso il capitale a rischio. Il rapporto Colao conteneva un suggerimento (mal formulato) che andava in questa direzione.

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