Il Patto per le migrazioni della Commissione europea non è un nuovo inizio perché non risolve i nodi centrali della questione. E resta ancorato alla visione di migranti e rifugiati come un costo per la società e non come una risorsa su cui investire.
Il ruolo strutturale delle migrazioni
Il Patto per le migrazioni annunciato dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, come “un nuovo inizio” per affrontare in modo solidale il fenomeno dell’immigrazione in Europa aveva fatto sperare in un cambio di paradigma. Una volta presentato, tuttavia, il nuovo Patto rivela solo piccoli cambiamenti mentre sembra ancora imbrigliato sui nodi centrali della politica migratoria e di asilo Europea: gli accessi regolari, i ricollocamenti e la solidarietà obbligatoria (e non flessibile) nel superare gli accordi di Dublino.
Il nuovo Patto esordisce riconoscendo il ruolo strutturale e sistematico delle migrazioni nello sviluppo economico dei paesi, sia di origine che di destinazione. In diversi lavori empirici, Michael Clemens ha mostrato come a livello aggregato l’emigrazione sia un “sintomo” che un paese sta crescendo da un punto di vista economico. È una “fase positiva” di crescita che è stata attraversata dai paesi avanzati in passato e oggi caratterizza i paesi in via di sviluppo. In un lavoro congiunto mostriamo anche come siano le persone con maggiori risorse (in termini economici, di qualifiche o motivazionali) a emigrare dai paesi in via di sviluppo e come sia lo sviluppo economico stesso a determinare il processo di “selezione positiva”. Gli stessi meccanismi (legati ai costi e benefici del processo migratorio) che spingono le persone con maggiori risorse a emigrare si applicano per coloro che scappano da guerre e persecuzioni e cercano asilo in Europa e non in paesi limitrofi (si veda qui). Tuttavia, se non esistono canali regolari per emigrare o per chiedere asilo dal proprio paese di origine, chiunque voglia o sia nelle condizioni di partire è costretto ad arrivare nel paese di destinazione in maniera “irregolare”.
Le politiche da adottare
Sarebbe dunque auspicabile una politica migratoria in grado di differenziare i flussi di richiedenti asilo da coloro che si spostano per motivi di lavoro. Per fare ciò è necessario allentare i vincoli sul secondo gruppo e consolidare il diritto di asilo (che è un diritto umano fondamentale). È un nodo centrale perché al di là dei numeri dell’accoglienza (sia assoluti che relativi) e dei ricollocamenti “obbligatori” in periodi di crisi, ciò che rende eterogenei i paesi europei nella gestione del fenomeno migratorio è l’esposizione continuativa e sistematica dei paesi di frontiera ai flussi in entrata (anche piccoli) e la loro conseguente politicizzazione.
Ci si aspetterebbe anche una concezione politica che consideri migranti e rifugiati non solo come un costo per la società, ma come una risorsa su cui “investire” (per le loro potenzialità e anche per le diverse forme di complementarità, per esempio demografica, con i paesi di destinazione, come tanti studi scientifici dimostrano). Il Patto proposto dalla Commissione europea, invece, prevede maggiore cooperazione con i paesi di origine per “scoraggiare” l’emigrazione, ovvero il contrario di quello che l’evidenza empirica suggerirebbe.
Non si tratta dunque di un “nuovo inizio”, in quanto il Patto include misure di rafforzamento delle frontiere esterne dell’Ue (con pesanti oneri per i paesi di primo ingresso), di snellimento delle procedure di assegnazione dello status di rifugiato sulla base del paese di provenienza (indebolendo di fatto il diritto di asilo che spesso coinvolge storie personali) e di solidarietà “opzionale” fra paesi (che possono sostenere economicamente i rimpatri al posto di accettare i ricollocamenti). Il superamento del regolamento di Dublino è ancora lontano, anzi si prefigura addirittura un peggioramento delle condizioni dei paesi di primo approdo, come l’Italia, che dovranno gestire non solo gli arrivi, ma anche lo screening iniziale (registrazione, identificazione delle diverse categorie, controlli sanitari).
Il 3 ottobre si è celebrata la Giornata della memoria delle vittime della migrazione, in commemorazione del naufragio del 2013, in cui persero la vita 368 persone a un chilometro dalle coste di Lampedusa. Da quel giorno, abbiamo assistito al picco degli arrivi nel 2015-2016 e ai successivi giri di vite sui controlli alle frontiere e sulle politiche di soccorso in mare, insieme ai ricchi accordi bilaterali con i principali centri dell’emigrazione irregolare. Tutto ciò non ha fermato le partenze e le stragi nel Mediterraneo che finora contano più di 20 mila vittime stimate.
La politica migratoria europea rappresenterà un nuovo inizio quando sarà in grado di mettere fine a queste stragi, nelle quali perdono la vita giovani uomini e donne pieni di aspirazioni e bambini inermi che avrebbero diritto a un futuro. L’obiettivo non contempla solo il soccorso in mare, ma una politica migratoria comune, che vada oltre il controllo dei confini e la sicurezza e che metta al centro la tutela dei diritti umani, insieme alla previsione e gestione dei flussi in anticipo. Senza il disegno e l’attuazione di alternative legali e sicure per permettere alle persone di raggiungere i paesi di destinazione desiderati, sarà difficile che l’Europa possa concretamente trovare un equilibrio stabile fra solidarietà e responsabilità.
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