Anche nella raccolta e gestione dei rifiuti organici l’Italia è divisa in due, tra regioni virtuose e altre in ritardo. La sfida è coniugare la libertà di movimentare i rifiuti sul territorio nazionale con la necessità di realizzare impianti di prossimità.
Le “due Italie” dei rifiuti
Differenziare è ormai diventata un’abitudine: agli albori c’erano le isole ecologiche, dove i volenterosi portavano plastica, carta, metallo, vetro. Poi è arrivato il ritiro a domicilio e si è aggiunta la raccolta del rifiuto organico, inteso sia come frazione umida (detto in gergo Forsu) sia come “verde” (ovvero potature, sfalci e scarti del giardino).
I numeri attestano l’impegno quotidiano dei cittadini. Nel 2018, i rifiuti organici raccolti in modo differenziato sono stati 7,1 milioni di tonnellate, di cui 5,1 milioni di frazione umida e quasi 2 milioni di “verde”. Si tratta di quantità in continua crescita: dagli 86 kg per abitante del 2013 si è passati ai 117 del 2018, grazie all’estensione delle raccolte differenziate.
Un risultato lodevole che, tuttavia, non vede una distribuzione uniforme sul territorio nazionale, con le aree del Centro-Sud ancora in posizione di retroguardia. Tolte, infatti, Valle D’Aosta e Liguria, regioni come Lazio, Puglia, Calabria, Sicilia, Basilicata e Molise hanno quantità inferiori alla soglia dei 100 kg/ab all’anno. Le ultime tre, in particolare, versano in una situazione critica, intercettando meno di 70 kg/ab di rifiuto organico e contribuendo ad abbassare la media del Mezzogiorno a 95 kg/ab.
Tra le più virtuose, invece, vi sono Emilia Romagna (174 kg/ab), Marche (159 kg/ab), Toscana (138 kg/ab), Veneto (153 kg/ab), Sardegna (142 kg/ab), Umbria (139 kg/ab), Friuli-Venezia Giulia (137 kg/ab) e, infine, Lombardia (125 kg/ab), anch’essa sopra alla media. Tra i comuni con più di 200 mila abitanti, le città di Firenze, Venezia, Padova e Milano hanno un grado di intercettazione del rifiuto organico superiore ai 100 kg/ab.
Sul risultato – soddisfacente o insoddisfacente – incidono molteplici motivi: dall’efficienza della raccolta differenziata fino alla diversa modalità di raccolta. Ma si aggiungono anche altri fattori, come le abitudini alimentari, le caratteristiche geo-morfologiche dei territori, la densità abitativa e la presenza e l’incidenza dei flussi turistici o di pendolari che influenzano la quantità e qualità del rifiuto organico prodotto e raccolto.
Va da sé che la questione più importante è la capacità di gestire e trattare il rifiuto organico all’interno di impianti specializzati. Sui 6,3 milioni di tonnellate di rifiuti organici gestiti nel 2018, la stragrande maggioranza è stata trattata nelle regioni del Nord Italia: 4,3 milioni di tonnellate contro 1,3 milioni nel Sud Italia e le 700mila del Centro. Il risultato della scarsa capacità di trattamento è che le aree del Centro e del Mezzogiorno devono sistematicamente ricorrere al soccorso delle regioni del Nord, i cui impianti dimostrano di poter gestire quantità di rifiuti superiori a quelle che attualmente trattano.
Lo squilibrio non fa che rimarcare quanto già noto per altre tipologie di rifiuti e relativo metodo di trattamento: un deficit impiantistico grave e profondo, che porta i rifiuti a muoversi dal Centro e dal Sud verso le regioni del Nord.
Anche sugli impianti disponibili c’è una netta spaccatura. Se il compostaggio è pressoché l’unica tecnologica disponibile nel Sud del paese, il trattamento integrato aerobico e anaerobico e la digestione anaerobica, con impianti di taglia maggiore, più evoluti ed efficienti perché producono anche energia, sono presenti quasi solo al Nord, e in particolare in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.
La causa principale di questa situazione va ricercata nella presenza o assenza di serie politiche del territorio. Alcune aree hanno puntato su una dotazione impiantistica coerente con i fabbisogni o hanno lasciato che la risposta impiantistica si aggiustasse alla domanda secondo logiche industriali e di mercato. Altre, al contrario, hanno trascurato la programmazione e più o meno volontariamente hanno fatto affidamento sulla libertà di circolazione del rifiuto differenziato destinato a recupero, scoraggiando o comunque non sostenendo la realizzazione degli impianti. I risultati sono evidenti, tanto nel bene come nel male.
Nel primo caso, Friuli-Venezia Giulia (310 kg/ab gestiti), Veneto (243 kg/ab) e Lombardia (162 kg/ab) hanno sviluppato capacità di trattamento del rifiuto organico più che sufficienti ad accogliere anche i rifiuti provenienti dalle altre regioni del Nord meno infrastrutturate, come Piemonte (95 kg/ab), Liguria (29 kg/ab) e Valle d’Aosta (0 kg/ab), comunque in una logica di prossimità di area geografica. Altre regioni – come Sardegna (147 kg/ab), Molise (142 kg/ab), Umbria (137 kg/ab) ed Emilia-Romagna (121 kg/ab) – hanno scelto una capacità impiantistica dimensionata sul fabbisogno interno, che fosse però in grado di gestire eventuali eccedenze con il ricorso a impianti localizzati in regioni limitrofe.
Nel secondo caso, invece, Lazio (27 kg /ab) e Campania (19 kg), che pure sono tra le regioni italiane a più alta densità abitativa e con una elevata presenza di turisti e pendolari, mostrano una capacità di gestione inadeguata rispetto al fabbisogno. Costantemente esposte al rischio di “emergenze”, dipendono dall’esportazione di rifiuti organici a grandi distanze e fuori regione.
Benché al Centro-Sud la situazione difficile sia comune, le ragioni che la determinano non sono per forza le medesime. Vi sono, infatti, zone nelle quali è riconducibile a un ritardo nello sviluppo delle politiche di raccolta differenziata; in questo caso è solo una questione di tempo perché il divario possa venir colmato. In altri territori, però, è altamente probabile che gli impianti non vengano mai realizzati senza un intervento pubblico, nonostante ve ne sia il bisogno. A bloccare ogni avanzamento vi sono un ventaglio di fattori quali burocrazia e barriere all’ingresso di tipo autorizzativo, opposizione della popolazione o di una sua parte (sindromi Nimby) o forti condizionamenti esterni come quelli esercitati dalla criminalità organizzata sul ciclo dei rifiuti.
Colmare il gap fra Nord e Sud garantendo mercato e ambiente
Doveri delle istituzioni e gestione dei servizi pubblici, logiche industriali e spinte del mercato, presenza o carenza di infrastrutture adeguate: in un contesto così polarizzato si muove e opera Arera, con l’obiettivo di porre le condizioni per ridurre i divari territoriali, impiantistici e di qualità del servizio.
La sfida è tutt’altro che semplice. Da una parte l’Authority dovrà trovare strumenti tariffari in grado di incentivare e aiutare la realizzazione di impianti in quelle zone del paese dove vi sono evidenti carenze e, più a lungo termine, creare anche lì le condizioni per lo sviluppo di un mercato. Dall’altra, le sue scelte non dovranno ostacolare lo svolgimento di attività di raccolta secondo logiche di mercato laddove gli impianti esistono e la gestione funziona.
A questo si aggiunge un quadro normativo, nazionale ed europeo, non sempre di lineare interpretazione e applicazione. Specialmente quando si tratta di armonizzare concetti opposti come quello di libertà di movimentare i rifiuti sul territorio nazionale e la necessità, invece, di realizzare impianti di prossimità.
Per esempio, nel Testo unico ambientale del 2006 (articolo 181, comma 5) si invita sia a operare in un’ottica di mercato, preservando la “libera circolazione” sia ad agire tenendo in considerazione il “principio di prossimità”, spingendo per una tutela dell’ambiente.
L’idea di “prossimità” è ribadita in maniera chiara nel Dpcm 7 marzo 2016, nel quale il fabbisogno di trattamento dell’organico italiano è valutato su base regionale. Più di recente, però, l’atto di recepimento della direttiva 851/2018 estende il principio di area vasta anche al fabbisogno impiantistico per le attività di recupero. La disposizione sembra dunque prefigurare l’eventualità di risposte impiantistiche integrate a livello sovra-regionale anche per il riciclaggio dell’organico.
Servono dunque iniziative in grado di rispondere alle forti differenze presenti nel settore rifiuti. Il presidio sulla concorrenza va difeso nei territori ove l’offerta impiantistica è soddisfacente, sostenendo solo le iniziative realmente in grado di assicurare benefici ambientali e costi inferiori. Al contempo, vanno scoraggiate le iniziative di pura opportunità, che si reggono sulla sottrazione dei rifiuti alle regole del mercato e che non assicurano né costi competitivi né benefici ambientali apprezzabili.
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