L’esperienza vissuta dall’Italia durante la pandemia impone una riflessione critica sull’evoluzione del nostro sistema istituzionale. Dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, è caratterizzato da una dispendiosa molteplicità di livelli di governo.
Un contrasto crescente tra istituzioni
Da qualche settimana stiamo faticosamente cercando di uscire dall’emergenza socio-sanitaria conseguente al diffondersi, anche in Italia, della pandemia da “Covid 19”. Pur con tutte le incognite che il periodo ci riserva, è possibile e doveroso iniziare a svolgere alcune considerazioni in merito alla risposta che il nostro sistema-paese è stato complessivamente in grado di dare agli enormi problemi insorti e alle criticità istituzionali che lo stato di emergenza ha impietosamente evidenziato e che hanno ulteriormente aggravato il quadro complessivo delle nostre finanze pubbliche.
Un problema emerso prepotentemente nei mesi appena trascorsi è certamente quello dell’assetto istituzionale della Repubblica, su cui finalmente hanno iniziato a riflettere criticamente numerosi studiosi, specie con riferimento al ruolo assunto delle regioni – a cinquanta anni dall’istituzione di quelle a “statuto ordinario”: l’accentuarsi di egoismi e particolarismi rende obiettivamente più difficile una strategia unitaria, sia economica che sanitaria e sociale.
Bisogna ricordare, infatti, come le riforme amministrative degli anni Novanta, culminate nel 2001 con la modifica del Titolo V della Costituzione in senso cosiddetto “federalista”, abbiano costituito i presupposti per un nuovo localismo, favorendo un’onerosa moltiplicazione dei centri decisionali e di spesa che rischia di decolorare la dimensione nazionale e unitaria della pubblica amministrazione, strumentale alla soddisfazione dell’interesse pubblico.
Tale condizione ha accentuato un crescente contrasto fra le istituzioni e ha allargato la distanza dell’esperienza che abbiamo vissuto in questa emergenza sanitaria dall’ideale costituzionale delle autonomie regionali e della leale collaborazione fra queste e lo stato.
Tutto ciò è accaduto anche per l’assenza, in Costituzione, di una esplicita clausola “di supremazia” nonché di una previsione generale del cosiddetto “stato di eccezione” la cui ipotesi è contemplata unicamente nell’articolo 78, con riguardo al solo caso di guerra in cui è previsto che “le Camere conferiscono al governo i poteri necessari”.
Ne è derivato un percorso a ostacoli nella lotta all’epidemia, nel corso del quale non poteva ovviamente mancare il ricorso alla giustizia, specie amministrativa, il cui intervento cautelare è stato spesso richiesto non solo da privati che si sono ritenuti illegittimamente penalizzati dai provvedimenti emergenziali emanati soprattutto in sede locale, ma anche dal governo che, nel mentre era impegnato a combattere l’emergenza sanitaria, ha ritenuto di dovere impugnare diversi provvedimenti “eccentrici” di autorità territoriali.
I tre punti critici
In un contesto di iperproduzione normativa centrale e locale non sorprende, dunque, che ci si sia diffusamente esercitati ad attribuire ad altri la responsabilità di carenze proprie e disagi vari, quali quelli che hanno riguardato l’adeguatezza delle strutture ospedaliere e la capienza dei reparti dedicati alle malattie infettive e alla terapia intensiva, come pure che si denunciassero gravi manchevolezze nella fornitura e distribuzione di apparecchiature e dispositivi sanitari, di mascherine e materiali d’uso per contrastare il contagio, per ovviare alle quali si è andati in ordine sparso esponendosi a frequenti “incauti acquisti” e affidamenti diretti, che hanno già richiamato l’attenzione di numerose procure penali e contabili.
Il frazionamento delle competenze fra i molteplici livelli istituzionali esistenti ha indebolito lo stato sia in ambito internazionale che interno, ove rischia di perdere il suo ruolo centrale di promotore del benessere della comunità nazionale, frenato dalla richiesta di “compensazioni territoriali” frequentemente avanzate nell’ambito di una necessitata permanente concertazione fra tutti i soggetti interessati (vedasi esempi di scuola, sanità, opere pubbliche e altro ancora).
Tale condizione ha avuto come punto di partenza il 1997 con le cosiddette “leggi Bassanini” che, per una sorta di eterogenesi dei fini, anziché semplificare realmente la nostra pubblica amministrazione, ne hanno favorito una “operosa improduttività” testimoniata dalla necessità di un profluvio di norme secondarie e di continue conferenze di servizi, tavoli di concertazione e cabine di regia, spesso superabili solo attraverso la remunerativa nomina di commissari o il ricorso alle “delicate” procedure extra ordinem di “protezione civile”.
In tale acclarato contesto, tre appaiono i punti critici a cui è necessario porre urgente rimedio:
1) l’errata riforma costituzionale e amministrativa in chiave pseudo-federalista;
2) l’errata impostazione di un sistema di pesi, contrappesi e controlli;
3) l’errata riforma della privatizzazione del pubblico impiego in una generalizzata logica “pan-aziendalistica”.
È giunto il tempo, dunque, di ripensare la riforma costituzionale del 2001, che ha enfatizzato il ruolo delle regioni senza considerare il fatto obiettivo che sono troppo piccole per legiferare e troppo grandi per amministrare: il paese ha bisogno di una reale semplificazione dell’amministrazione centrale e locale in grado di garantire una spesa pubblica efficiente capace di far ripartire l’economia, svincolata da condizionamenti localistici e finalizzata a soddisfare l’interesse generale.
Potremmo dire che, altrimenti, rimarremo condannati a rappresentare una evidente conferma della fondatezza della “teoria delle scelte pubbliche” (elaborata da James Buchanan, premio Nobel per l’economia nel 1986), secondo la quale il funzionamento dello stato è influenzato negativamente dalla presenza di troppi interessi particolari che causano una crescita eccessiva della spesa pubblica.
* Michele Oricchio è presidente di sezione della Corte dei conti.
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