Non sorprende che a maggio l’occupazione sia scesa di quasi il 3 per cento. Soprattutto per il crollo dei posti di lavoro a termine. Quelli a tempo indeterminato, infatti, sono stati “congelati”. Ma si intravedono segnali di ritorno alla normalità.

Il lavoro nei mesi di lockdown

Quando il ciclo economico viene profondamente alterato da uno shock improvviso, come accaduto in questi mesi a seguito del lockdown decretato in risposta all’emergenza sanitaria, le statistiche sono sottoposte a molteplici tensioni: da un lato, sono destinatarie di un surplus di interesse, perché gli attori politico-sociali e l’opinione pubblica hanno estremo bisogno di comprendere quanto sta accadendo e orientarsi di conseguenza, dall’altro sono strattonate e mal interpretate da quanti scaricano anche su di esse la propria visione di come si dovrebbe condurre la barca nella tempesta. Occorre dunque, più del solito, avvicinarsi e utilizzare le statistiche con discernimento, interrogandole con prudenza e cercando di non far dire loro più di quanto vorrebbero.

I dati mensili Istat sull’occupazione, resi noti il 2 luglio, ci dicono che la riduzione del numero di occupati (maggio 2020 su maggio 2019) è pari a 681 mila unità; ad aprile il risultato era stato ancora peggiore: -717 mila (utilizziamo i dati grezzi anziché quelli destagionalizzati perché quest’ultimi nascondono l’impatto degli shock inediti e improvvisi, tanto se dovuti alle politiche quanto se determinati, come in questi mesi, da vicende naturali).

Si tratta di una contrazione attorno al 3 per cento (-3,1 per cento il tendenziale ad aprile; -2,9 per cento a maggio), la peggiore da quando esistono dati Istat comparabili. Nel settembre 2009 – il mese con la peggior variazione tendenziale nel corso della grande crisi di inizio secolo – ci si era fermati al -2,7 per cento (dato grezzo; -2,3 per cento dato destagionalizzato).

Non sono certo numeri di cui meravigliarsi, con un’economia soggetta per un paio di mesi a restrizioni sia nella produzione (circa metà del sistema produttivo privato è stato coinvolto nella chiusura delle attività non essenziali) sia nel consumo (date le limitazioni per i consumatori).

Sempre Istat ci dice che il risultato negativo è dovuto in parte alla perdita di posti di lavoro nell’ambito del lavoro indipendente – qui la crisi da Covid-19 ha solo accentuato un trend già in essere – e, soprattutto, al netto ridimensionamento dei posti di lavoro a termine (-709 mila su maggio 2019; -592 mila se destagionalizzati). Contro la precarietà, il Covid è stato – transitoriamente – di un’efficacia brutale. Come ci informano coerentemente le analisi sui dati delle comunicazioni obbligatorie sia a livello nazionale che regionale, aggiornati in qualche caso fino a giugno, le assunzioni a termine nei mesi di marzo e aprile sono crollate e si è rarefatto il ricorso alle proroghe. In concreto, vuol dire riduzione di opportunità di ingresso per chi stava per entrare nel mondo del lavoro (giovani) o per chi vi rientrava dopo interruzioni cicliche (lavoratori stagionali) o dovute a qualsiasi altra motivazione (perdita del posto di lavoro; rientro dall’inattività).

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I dati di flusso disponibili indicano che su questo fronte si sta riavviando la fisiologia del mercato del lavoro ed è già un risultato importante realizzare in questi mesi un volume di assunzioni sempre più simile a quello dell’anno precedente (come registrato in Veneto a fine giugno): ma ciò non basta, ovviamente, per recuperare i volumi occupazionali precedenti.

Posti di lavoro “congelati”

Nel contempo, i posti di lavoro a tempo indeterminato sono stati “congelati” con il doppio dispositivo del ricorso alla cassa integrazione, nelle sue varie articolazioni con causale Covid, e del blocco dei licenziamenti. Istat ci dice che ancora a maggio la variazione tendenziale degli occupati con contratti a tempo indeterminato risultava positiva, attorno alle 200 mila unità, senza variazioni rilevanti rispetto a quanto registrato nei mesi pre-pandemia.

Sappiamo che il ricorso alla Cig è stato per forza massiccio. Ciò è implicitamente attestato anche dalla dimensione monstre – come logicamente prevedibile – delle ore autorizzate (poco meno di 2 miliardi), che impressionano ma non servono a capire la questione oggi centrale, vale a dire i ritmi dello scongelamento. Più utili, in questa direzione, sono i dati pubblicati da Inps questa settimana che ci informano che i beneficiari di cassa integrazione erogata o da erogare direttamente dall’Istituto sono stati poco più di 2,5 milioni a marzo, sono divenuti oltre 3 milioni ad aprile e a maggio sono scesi a 1,8 milioni. Il dato di maggio è provvisorio perché, pur essendo trascorso ormai un mese, non tutte le imprese hanno comunicato le informazioni relative alle ore effettive di Cig effettuate in maggio da ciascun lavoratore. Si può dare per certo che il numero di beneficiari si fermerà ben al di sotto di quanto registrato per aprile. Ma non solo: anche rimanendo consistente il numero di beneficiari, dovrebbe ridursi significativamente il numero medio di ore di Cig pro capite (o la quota di lavoratori in Cig a zero ore). Ci si attende che un’analoga dinamica caratterizzi i beneficiari di Cig anticipata dalle imprese e quindi compensata da Inps a conguaglio (un aggregato non ancora adeguatamente tracciabile e di consistenza analoga a quello dei cassintegrati pagati direttamente da Inps). Anche Istat, del resto, nella sua informazione mensile ci dice che gli “occupati assenti” nella settimana di riferimento risultavano il 34 per cento ad aprile e sono scesi al 16 per cento a maggio (ricordiamo che l’assenza fisiologica, per malattia, ferie o altro è nei mesi primaverili attorno al 4 per cento). I dati amministrativi, quando disponibili, potranno chiarire con maggiori dettagli e precisione se questo è il ritmo del ritorno al funzionamento “normale” del mercato del lavoro.

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Al ricorso esteso alla Cig risulta collegato anche il blocco dei licenziamenti: ha avuto il significato di obbligare le imprese, temporaneamente con attività sospese, a considerare il ricorso alla Cig non come un’opzione possibile, ma come l’unica disponibile. È del tutto evidente che si tratta di un dispositivo così eccezionale che, come tale, dovrebbe protrarsi per il minor tempo possibile. È vero che nella realtà i licenziamenti in parte sono continuati (come evidenziato dai dati disponibili ricavati dalle comunicazioni obbligatorie: vedi la Misura 96 in www.venetolavoro.it), e non solo sotto la specie di licenziamenti disciplinari, e pure l’Inps ha ovviamente assicurato l’erogazione della Naspi a quanti sono stati licenziati, seppur con un licenziamento proibito. Ma è altrettanto vero che si può formare un accumulo di “licenziamenti arretrati” (negli anni pre-Covid in Italia si facevano mediamente circa 50 mila licenziamenti al mese per ragioni economiche, nella stragrande maggioranza nelle piccole imprese) che è del tutto illusorio gestire con divieti e Cig sine die, rinunciando di fatto agli strumenti pur esistenti e previsti per tali evenienze (Naspi e politiche attive).

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