Nell’ultimo decennio il nostro sistema imprenditoriale ha vissuto diversi cambiamenti, anche normativi. Alcuni tratti peculiari della governance delle società si sono però acuiti. Delineando un contesto poco adatto a raccogliere le sfide attuali.
Proprietà molto concentrata
L’economia italiana fatica a riprendersi dalla doppia recessione e la congiuntura rimane debole. La dinamica della produttività dalla seconda metà degli anni Novanta è stata modesta sia nel confronto storico sia rispetto agli altri principali paesi dell’area dell’euro. I fattori di debolezza strutturali sono molteplici e, tra questi, vanno ricomprese anche alcune caratteristiche degli assetti di governance delle nostre imprese, che possono aver influito sulla capacità di raccogliere le opportunità offerte dalla crescita della domanda mondiale e dal progresso tecnologico.
È perciò interessante domandarsi in quale direzione si sia evoluta la governance delle aziende italiane negli ultimi anni. In un recente lavoro abbiamo provato a fornire alcune evidenze al riguardo, analizzando l’universo delle società di capitali (attive nel settore privato non finanziario) nel periodo 2005-2016.
La risposta, in estrema sintesi, è semplice. Le imprese continuano a caratterizzarsi per un’elevata concentrazione della proprietà, una forte persistenza del modello familiare e un contenuto grado di separazione tra proprietà e gestione. Tali fattori – già evidenziati in studi del passato – nel corso dell’ultimo decennio, anziché stemperarsi, si sono rafforzati.
Più in dettaglio, nel 2016 buona parte delle imprese risultava controllata da uno (20 per cento dei casi) o due soci (47 per cento); la quota di imprese con un unico socio è più che raddoppiata rispetto ai dieci anni precedenti. Il primo socio deteneva in media circa i due terzi del capitale di rischio, in lieve aumento rispetto al 2005.
A una proprietà significativamente concentrata si associa anche una bassa separazione con la gestione: detto altrimenti, è assai frequente che un socio vesta anche i panni dell’amministratore (magari, investito di vasti poteri, come nel caso dell’amministratore unico o esecutivo). Nel 2016, circa la metà del capitale di rischio era detenuto dagli amministratori, un valore in crescita nel periodo analizzato.
Anche guardando alle caratteristiche dei soci e degli amministratori, emerge un quadro poco dinamico. Da un lato, è diminuita significativamente sia la percentuale di equity detenuta da giovani con meno di 35 anni sia la loro presenza neiconsigli di amministrazione. Dall’altro, è rimasta stabile la partecipazione al capitale di rischio delle donne (meno del 40 per cento) e, ancor più, il loro coinvolgimento come amministratrici (meno del 25 per cento), in contrasto con le tendenze osservate, di riduzione del divario di genere, nella maggioranza delle economie avanzate.
L’elevata concentrazione della proprietà e la sovrapposizione tra questa e la gestione, oltre alla tradizionale piccola dimensione, hanno un comune denominatore: la proprietà familiare, che è aumentata nel periodo analizzato (figura 1).
Figura 1 – Caratteristiche della proprietà familiare.
Nota: La concentrazione è misurata come la quota di capitale di rischio detenuto dal primo socio; la coincidenza tra proprietà e gestione è misurata come la quota di capitale di rischio detenuta dagli amministratori; le piccole imprese sono quelle con meno di 10 dipendenti.
Fonte: elaborazioni su dati Infocamere e Cerved Group (Baltrunaite, Brodi e Mocetti, “Assetti proprietari e di governance delle imprese italiane: nuove evidenze e effetti sulla performance delle imprese”, Questioni di Economia e Finanza 514, 2019).
Nel 2016 quasi due terzi delle imprese risultava di proprietà familiare (identificata usando i cognomi dei soci), in aumento di oltre 10 punti percentuali rispetto a dieci anni prima. La crescita è stata trainata dalle srl (società a responsabilità limitata), mentre l’incidenza della proprietà familiare è rimasta pressoché costante tra le spa (società per azioni).
Più capacità di resistenza
Perché queste caratteristiche (invero peculiari) del nostro sistema produttivo non sono state scalfite dai grandi stravolgimenti del contesto macroeconomico ma, al contrario, si sono acuite? Nel lavoro si individuano almeno un paio di risposte.
In primo luogo, possono aver influito alcuni interventi normativi. L’introduzione delle srl semplificate e delle srl ordinarie piccole (ossia con capitale sociale inferiore a 10 mila euro), assieme ad altre misure volte a contenere i costi del “fare impresa”, hanno avuto effetti positivi sulla demografia delle società, favorendo la nascita di (piccoli) operatori, spesso con un unico socio e quindi, per definizione, familiari (figura 2).
Figura 2 – Natalità delle srl per tipologia di forma societaria.
Fonte: elaborazioni su dati Infocamere (Baltrunaite, Brodi e Mocetti, “Assetti proprietari e di governance delle imprese italiane: nuove evidenze e effetti sulla performance delle imprese”, Questioni di Economia e Finanza 514, 2019).
In secondo luogo, le imprese familiari, sebbene meno orientate alla crescita e meno produttive rispetto alle altre, hanno mostrato una maggiore resilienza. In altri termini, a parità di settore economico e area geografica, sono state caratterizzate, nel periodo analizzato, da una minore probabilità di uscire dal mercato.
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