Si può pensare di fare arrivare liquidità alle piccole e medie imprese sotto forma di capitale di rischio anziché di debito. Se abbinate a vantaggi fiscali, queste azioni potrebbero diventare appetibili per il mercato, con vari vantaggi diffusi.
Il Covid-19 obbliga a lavorare di fantasia. Mentre le famiglie propendono per aiuti “pochi, maledetti, gratis e subito”, le imprese mirano a una liquidità più larga, anche se a debito. Lo stato deve certo aiutare le imprese ma i debiti indeboliscono e prima o poi vanno pagati.
Liquidità attraverso il rubinetto della banca
I decreti 18 e 23 del 2020 cercano di non far deflagrare il rapporto fra creditore finanziario e debitore non finanziario, con particolare attenzione alle problematiche del debitore-impresa. Essi intendono far fluire la liquidità utilizzando il circuito bancario perché questo è un efficace veicolo di distribuzione (e governo) delle risorse messe in campo ed è idoneo ad amministrare, con una minimale oculatezza, le somme da distribuire. L’aver riservato una garanzia solo parziale ai finanziamenti superiori a 25 mila euro va vista, in questo contesto, come atto di responsabilità verso la collettività piuttosto che come freno alla sopravvivenza delle attività di lavoro autonomo. Starà alle banche trovare un punto d’equilibrio tra garanzie pubbliche e rischi assunti. Ma maggiore è il successo di questi interventi, maggiori sono i rischi sistemici per il garante (Sace) ed anche per il garantito (banche). Considerato, poi, che le condizioni degli affidamenti appaiono assai appetibili, è prevedibile esse possano stimolare richieste anche da parte di imprese che non ne avrebbero bisogno: ma che non hanno motivo per rinunciare a un’opportunità così vantaggiosa.
Capitale di rischio anziché di debito
Vi è, allora, da domandarsi se esistano – o possano crearsi – strumenti idonei a ottenere risultati meno squilibrati, meglio se idonei altresì a rafforzare la struttura del sistema imprenditoriale italiano, specie quello delle Pmi. Per farla breve: più capitale e meno debiti. Assonime propone la costituzione di un fondo da raccogliere perlopiù presso investitori istituzionali, con cui sottoscrivere operazioni varate da imprese produttive basate su capitale di rischio anziché di debito. La proposta va nella direzione giusta ma non pare di così immediata attivazione. Vale, poi, solo per imprese con fatturato superiore a 25 milioni (ma inferiore a 5 miliardi) o 50 dipendenti. Al tempo stesso recenti dati Banca d’Italia segnalano l’esistenza di liquidità giacente presso il sistema bancario italiano dell’ordine di 1.800 miliardi di euro (Abi Monthly Outlook – Febbraio 2020). Evitando di pensare a una discutibile imposta patrimoniale (anche per inesistenza di una affidabile anagrafe di patrimoni), il fisco potrebbe fare la sua parte proponendo un interessante trade-off con un occhio rivolto prevalentemente al risparmio delle persone fisiche.
Il ruolo del fisco
Una misura fiscale adeguata potrebbe essere costituita da un Ace (aiuto per la crescita economica) particolarmente rafforzato (Ace bis) e riservata a imprese non quotate e di medio-piccola dimensione (fatturato inferiore a 1,5 miliardi). Potrebbe ipotizzarsi un violento abbattimento dell’aliquota Ires (per ipotesi al 10 per cento) legato a due presupposti: l’immissione di nuovo capitale di rischio (nelle sue più svariate forme, inclusi gli Strumenti finanziari partecipativi) e la contestuale rinuncia al ricorso a finanziamenti assistiti dalla garanzia Sace. L’Ace bis dovrebbe essere legato al superamento di una soglia minima di nuova liquidità immessa e ragguagliata alla durata del prestito garantito (oggi dell’ordine di sei anni). Considerato che il limite dei finanziamenti garantiti sta nel maggiore fra il 25 per cento del fatturato 2019 e il doppio del costo del lavoro, l’Ace bis potrebbe applicarsi ove l’immissione di nuovo capitale fosse davvero significativa: pari, per esempio, almeno al maggiore fra il 100 per cento del patrimonio netto e il 5 per cento del fatturato 2019.
L’Ace bis, per essere davvero spendibile, dovrebbe essere concessa già a valere dal versamento del saldo 2019 e acconto 2020 (giugno 2020) disponendo un certo rinvio dello stesso.
Evidenti ne sarebbero i benefici: minore esposizione debitoria, maggiore robustezza patrimoniale, appetibilità per il mondo oggi assai liquido del private equity. E anche minore pressione sul sistema bancario e conseguente maggiore disponibilità di liquidità da parte dello stesso per situazioni più emergenziali.
I benefici dell’Ace bis (riservati alle imprese) potrebbero essere affiancati da interventi a favore di investitori persone fisiche con un adattamento della cosiddetta participation exemption (Pex). Potrebbero, cioè, crearsi azioni (i) di nuova emissione, (ii) riservate – cioè con esclusione del diritto di prelazione – (iii) con limitazioni nei diritti gestori e con privilegi in quelli economici, (iv) che godano dell’esenzione dalla tassazione tanto dei dividendi percepiti che dei capital gain realizzati; (v) con l’impegno a mantenerne il possesso per un congruo periodo di tempo (almeno tre anni).
Aiuto di stato da concordare con la Ue
Le azioni che danno diritto al trattamento privilegiato in questione dovrebbero essere emesse da società con sede e attività operative in territorio Italiano. Ovvio che il loro varo costituisce un aiuto di stato e dovrà essere concordato con Bruxelles: ma se non si possono creare i “corona bond” perché non consentirci di creare almeno le “corona share”?
Le azioni in questione dovrebbero essere sottoscritte esclusivamente da persone fisiche ovvero da fondi creati e riservati ad hoc. Nel primo caso – “fai da te” – i tempi potrebbero essere particolarmente contenuti. Incerto il relativo successo: ma potrebbe essere interessante non solo per i piccoli proprietari ma anche per manager e dipendenti. Più facile la seconda alternativa. Con tempi, però, inevitabilmente più lunghi.
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