L’andamento del mercato del lavoro italiano è altalenante e molti impieghi sono di bassa qualità. Si spiega così il senso diffuso di precarietà. La soluzione non è il ripristino di vecchi strumenti, perché non garantiscono una rete di protezione generale.
Dati in altalena
“Lavoro, dicembre nero”. “Precari, è record”. “Meno autonomi e più a tempo”. Questi i titoli di agenzie e giornali online del 30 gennaio. Solo venti giorni fa, invece, si poteva leggere: “Record storico”, “Più occupati”, “Dati incoraggianti”.
Cosa è successo in 20 giorni? Non abbiamo ancora imparato che le statistiche mensili andrebbero commentate con molta prudenza. Il bollettino mensile che l’Istat ha pubblicato il 30 gennaio, infatti, conferma una percezione diffusa anche tra i non specialisti: l’andamento del mercato del lavoro italiano resta altalenante, tanto più di fronte a una crescita del Pil che nel 2019 ha oscillato tra +0,2 nel primo trimestre e -0,3 nel quarto trimestre. Di fronte a tale debolezza difficile fare meglio.
Negli ultimi anni l’occupazione è cresciuta e la disoccupazione è scesa, anche in maniera più significativa di quanto non ci si potesse aspettare con un Pil stagnante. Tuttavia, si tratta di progressi lenti, non comparabili a quelli di altri paesi (nella primavera scorsa l’Economist dedicava una copertina al “boom di posti di lavoro” in giro per il mondo).
Inoltre, come già scritto molte volte, a un miglioramento nelle statistiche sul numero di occupati non corrisponde necessariamente un miglioramento significativo delle loro condizioni di vita. Le ore di lavoro restano sotto il livello pre-crisi a causa dell’esplosione del part-time involontario. I salari stagnano, ancora più di quanto non facessero nel periodo prima della crisi. Seppure in frenata, il lavoro a termine resta intorno al 17 per cento, esattamente come nell’estate 2018 quando fu varato il “decreto dignità”.
Tornano di moda vecchi strumenti
È comprensibile, quindi, che tra l’altalena dei dati sul numero di occupati, la bassa qualità di molti posti di lavoro e le numerose discussioni sulle crisi aziendali, resti nel paese un forte sentimento di precarietà. Ecco come si spiega il ritorno del dibattito sul Jobs act e sull’articolo 18, che alcune forze politiche vogliono portare anche al tavolo di verifica della maggioranza di governo. Un dibattito legittimo, ma che se fatto per slogan e vessilli rischia di non dare risposte efficaci ai problemi.
Innanzitutto, perché della parte del Jobs act che riformava la disciplina sui licenziamenti non rimane molto. Dopo la sentenza della Consulta del 2018, il grado di discrezionalità dei giudici in caso di licenziamento individuale è nuovamente molto ampio e l’indennità risarcitoria per le imprese è, rispetto ad altri paesi, potenzialmente elevata (fino a 36 mesi di stipendio). Sui licenziamenti collettivi pende poi la spada di Damocle di ricorsi alla Consulta e alla Corte di giustizia dell’Unione Europea che potrebbero avere successo e reintrodurre l’articolo 18 per questa fattispecie.
Ma non è solo questo. I lavoratori che vorrebbero lavorare più ore e non trovano un posto a tempo pieno, oppure quelli che si trovano di fronte a crisi aziendali, o quelli che vedono il proprio contratto a termine finire senza rinnovo o, ancora, quelli che alternano contratti di collaborazione a partite Iva poco se ne farebbero di un ritorno dell’articolo 18. Avrebbero invece bisogno (e diritto) a un sostegno economico, formativo e anche personale/psicologico degno di questo nome.
Dagli anni Novanta in poi, le riforme hanno ridotto le protezioni legali ma, salvo in parte e comunque timidamente il Jobs act, hanno puntualmente rimandato al futuro il rafforzamento delle protezioni economiche. L’accesso alle misure di sostegno di reddito quando ci si ritrova senza lavoro resta limitato rispetto ad altri paesi Ocse. Le politiche attive in molte regioni sono sostanzialmente inesistenti. Anche in questo caso la soluzione invocata è un ritorno alla cassa integrazione senza limiti temporali e solo per pochi. È un’opzione che permetterebbe di dare una risposta immediata ad alcune crisi aziendali, ma che ancora una volta non risponderebbe al problema di fondo della mancanza di una rete di protezione generale, a prescindere dal contratto e dall’impresa in cui si lavora.
Fare un tagliando alle riforme recenti (si parla soprattutto di Jobs act, ma dal 2008 a oggi abbiamo assistito a un intervento legislativo ogni due anni a cui si è aggiunto a volte l’intervento dei giudici) è più che legittimo. Ma prima è necessario disporre di una valutazione complessiva degli strumenti esistenti e del loro impatto concreto. E serve anche una riflessione globale promossa dal governo, ma il più possibile condivisa, sul futuro delle nostre istituzioni del mercato del lavoro. Lo ha fatto il governo inglese con la Taylor Review mettendo insieme imprese, associazioni, lavoratori (di “vecchio” e “nuovo” tipo), economisti, sociologi e giuristi per pensare al complesso delle politiche del lavoro e sociali del futuro. A molti quest’idea ricorderà la stagione dei libri bianchi e verdi e non ne proveranno nostalgia. Ma l’alternativa è continuare con provvedimenti di piccolo cabotaggio e proposte improvvisate in risposta al tema del giorno. Una strategia che, mi pare, non abbia dato alcun frutto duraturo.
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