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Eppur l’occupazione cresce

Il primo bilancio su occupazione e disoccupazione nel 2019 è positivo. Restano aperte però importanti questioni strutturali: dalla dinamica salariale stagnante, che riflette i mancati incrementi di produttività, all’incidenza del lavoro a termine.

L’andamento nel 2019

Con la pubblicazione, da parte dell’Istat, dei dati mensili su occupati e disoccupati aggiornati a novembre possiamo cominciare a valutare gli andamenti dei principali aggregati del mercato del lavoro nel 2019.

Contestualizzando gli andamenti in un arco triennale (il minimo per capirci qualcosa), emerge che:

  1. l’occupazione totale è ancora aumentata. Il ritmo di crescita, attorno a un valore medio di 300 mila occupati tra il 2017 e la prima metà del 2018 (in valori percentuali attorno a 1-1,5 per cento), si era abbassato nella seconda metà del 2018 a un valore modestissimo, attorno ai 100 mila occupati (0,4-0,0,5 per cento), risalendo però di nuovo negli ultimi mesi (figura 1);
  2. alla positiva dinamica dell’occupazione totale non contribuisce l’insieme del lavoro autonomo: nel 2017 ha evidenziato un risultato negativo; tra la seconda metà del 2018 e l’avvio del 2019 pareva essersi stabilizzato (forse, marginalmente, con la spinta dei nuovi vantaggi fiscali previsti per le partite Iva); negli ultimi mesi risultano prevalenti segnali negativi, peraltro coerenti con il trend di lungo periodo;
  3. il sostegno all’occupazione viene dunque essenzialmente, quasi sempre esclusivamente, dal lavoro dipendente (figura 2). In particolare, il contributo dei dipendenti permanenti è stato positivo fin sul finire del 2017, è divenuto negativo nel 2018 e ha infine recuperato verso la fine dell’anno tornando a crescere pressoché continuamente per tutto il 2019. Viceversa, l’occupazione a termine ha fornito un contributo positivo (prevalente o esclusivo) fino all’inizio del 2019, quando è stata sostituita dall’occupazione permanente.

Figura 1 – Occupati totali, dipendenti e indipendenti. Dati mensili destagionalizzati. Variazioni tendenziali su base annua (migliaia di unità)

Figura 2 – Occupati dipendenti, a termine e permanenti, 2017-2019. Dati mensili, variazioni tendenziali su base annua (migliaia di unità)

Ai dati positivi sull’occupazione complessiva accostiamo i segnali di riduzione della disoccupazione, con il relativo tasso sceso da circa un semestre sotto le due cifre (a novembre risultava pari al 9,7 per cento; anche quello dei giovani 15-24 anni è vistosamente diminuito): così il quadro dei macroindicatori risulta completo. Altri paesi hanno fatto meglio (in particolare Spagna e Germania tra i grandi, non la Francia): il confronto internazionale – anche solo con la media Ue – è sempre foriero di malinconie. Ma comunque dobbiamo riconoscere che siamo dentro un trend di incremento occupazionale, non di contrazione, nonostante le crisi aziendali rilevanti, la minaccia eterna delle nuove tecnologie, i sussulti dei mercati mondiali, la riduzione dei flussi di immigrazione e la crescita di quelli, soprattutto giovanili, di emigrazione.

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Tenendo conto poi che la popolazione in età lavorativa (15-64 anni) è in calo, il trend positivo degli occupati si accompagna a più che proporzionali miglioramenti del tasso di occupazione: ora ci si va avvicinando al 60 per cento, mentre anche prima della grande crisi del 2008 non si era mai raggiunto il 59 per cento.

Le problematiche dietro i numeri

Questi, dunque, i numeri salienti. Positivi certamente sul piano meramente quantitativo, che è pur sempre basilare. Non possono nascondere, però, questioni strutturali che rimangono di vitale importanza: luci e ombre, come quasi sempre nelle vicende umane. Accenniamo a due problematiche, strettamente legate ai dati esposti.

La prima è sottesa alla relazione con gli andamenti generali dell’economia: dato che il Pil cresce poco o niente, è implicito che anche la dinamica salariale ristagni, riflettendo i mancati incrementi di produttività (almeno nei valori medi), la sfavorevole composizione settoriale e – come attestato nei conti nazionali trimestrali – la nulla o debole crescita delle ore lavorate pro capite nel secondo e terzo trimestre 2019 (effetto anche della ripresa del part time).

La seconda problematica è relativa alla composizione del lavoro dipendente. Anche in seguito ai vincoli introdotti dalla legge del 9 agosto 2018 (conversione del cosiddetto “decreto dignità”), a partire dalla seconda metà del 2018 è stata registrata una progressiva e prolungata frenata della crescita del lavoro a termine (che però nei dati amministrativi non risulta ancora conclusa: tema da monitorare e approfondire con dati analitici). La frenata, finora compensata dal recupero dei rapporti di lavoro permanente, ha congelato le spinte espansive dei rapporti a termine, ma non ha alterato il loro peso sul totale: risulta tuttora attorno al 17 per cento, esattamente come nell’estate 2018.

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  1. Savino

    Bisogna intenderci sul part-time. Il fenomeno diffuso di quello involontario non può essere statisticamente nemmeno accostato a quello a scelta. Opterei per misurare l’involontario in categorie similari alle carriere discontinue per lavori a tempo determinato o a progetto. I risultati e i commenti sugli aggregati sarebbero ben diversi e rispecchierebbero di più la realtà.

  2. Diego

    Rispetto al dato sull’occupazione, è necessario aspettare il calcolo definitivo in base alle ULA-UnitàLavorative.Annue, in quanto gli occupati part-time (si pensi anche solo ai contratti intemittenti) non danno contezza della reale dimensione del fenomeno.
    Per quanto riguarda la c.d. “disoccupazione”, andrebbe specificato SEMPRE che dipende dal mantenimento dell’iscrizione al C.P.I. e dalla validità della “D.I.D.”, che sono dati dinamici e che dipendono dalla “volontà” del disoccupato di mantenere acceso il suo status e dalle difficoltà burocratico-informatiche che stanno dietro a questa infernale procedura (rif. Anpal).
    https://www.testo-unico-sicurezza.com/calcolo-ula-unita-lavorative-annue.html

  3. Michele

    Non è la produttività che determina la dinamica salariale, ma l’esatto opposto. Con una offerta di ore di lavoro abbondante, avvezza al precariato e con costo contenuto, la spinta a migliorare la produttività investendo va a zero. Molto più conveniente investire il meno possibile, organizzare il meno possibile e beneficiare della flessibilità a basso costo del lavoro su cui scaricare tutta la volatilità dei mercati. A livello micro e nel breve la ricetta perfetta: più utili, cash flow e dividendi. A livello macro e nel medio termine vuole dire declino del paese. Ma poco importa tanto poi l’azienda la vendono senza imposte grazie a pex e rivalutazione delle partecipazioni. Da massimizzare è il valore after tax.

  4. Diego Cecco

    Rispetto al dato sull’occupazione, non è forse il caso di attendere il calcolo definitivo in base alle ULA-UnitàLavorative.Annue? in quanto gli occupati part-time (si pensi anche solo ai contratti intemittenti), essi non danno contezza della reale dimensione del fenomeno.
    Per quanto riguarda la c.d. “disoccupazione”, andrebbe specificato SEMPRE che essa dipende dal mantenimento dell’iscrizione al C.P.I. e dalla validità della “D.I.D.”, che sono dati dinamici e che dipendono sempre dalla “volontà” del disoccupato di mantenere acceso e visibile il suo status e dalle difficoltà burocratico-informatiche che stanno dietro a questa a dir poco complicata procedura (rif. Anpal).

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