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Periferie: si fa presto a dire rinascita

La manovra di bilancio per il 2020 prevede risorse per la riqualificazione di edifici e aree degradate. Ma i semplici interventi urbanistico-edilizi non bastano. Vanno attuate politiche sociali che mirino a dare ascolto e risposte ai bisogni degli abitanti.

Pregi e limiti della “rinascita urbana”

Tra gli interventi previsti nella manovra di bilancio per il 2020 c’è anche un piano casa (denominato Rinascita urbana) per rilanciare gli investimenti nelle zone urbane. Prevede sostanzialmente due tipi di interventi: la riqualificazione e il recupero di edifici (a partire da quelli di edilizia pubblica e popolare) e di aree degradate, anche con la partecipazione di soggetti privati, per aumentare sia la quantità sia la qualità dell’offerta abitativa, e il rifinanziamento del fondo per l’affitto, per aiutare le famiglie in difficoltà e a rischio di morosità.

È sicuramente positivo che la questione dell’abitare sia entrata nell’agenda politica e non solo per sostenere l’abitazione di proprietà, come ormai avviene sistematicamente da anni. Se è vero che oltre il 70 per cento degli italiani vive in una casa di proprietà, l’affitto è concentrato tra i più poveri, le famiglie giovani e gli stranieri, gravando a volte fino al 35 per cento su bilanci risicati.

È positivo, e urgente, anche che si intervenga su aree e situazioni edilizie degradate non solo per l’incuria degli abitanti, ma per la negligenza dei soggetti pubblici che ne sono proprietari e, prima ancora, per il modo in cui molte di queste aree sono state pensate e create: agglomerati di grandi casermoni (si pensi a Corviale a Roma) senza servizi, collegati alla città da un sistema di trasporti largamente inefficiente, con il risultato di un doppio isolamento, sociale e spaziale.

Dare risposte ai bisogni degli abitanti

Temo, tuttavia, che non basti riqualificare gli edifici secondo le più aggiornate norme energetiche, creare spazi comuni e migliorare un po’ i trasporti, per rendere più vivibili quei quartieri. Non basta neppure che in questi quartieri si insedino imprese con progetti avveniristici che attraggono visitatori da altri quartieri e città, se rimangono come astronavi in un terreno alieno. Per questo Lavazza, insediatasi in uno dei quartieri tradizionalmente più problematici di Torino, dopo averne trasformato il profilo urbanistico con il suo palazzo modernissimo, ha iniziato a farsi coinvolgere in progetti del e con il quartiere e i suoi abitanti.

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Come hanno capito alcuni paesi europei, le politiche della casa, soprattutto quando sono rivolte alle persone e ai contesti più deprivilegiati, non possono essere solo politiche urbanistico-edilizie. Devono essere intese e praticate come politiche sociali, miranti al coinvolgimento e inclusione degli abitanti nella risposta ai loro bisogni. Sono necessari servizi di qualità, ma è anche necessario favorire relazioni di scambio, di auto-mutuo aiuto, di corresponsabilità. Molto di più, e di diverso, della “messa in sicurezza” delle periferie cui alludeva il Programma straordinario di intervento per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie del 2016, che ha messo a disposizione delle città metropolitane fondi a questo scopo. Per fortuna, una seppur piccola parte dei fondi è stata destinata a progetti di costruzione di comunità. Ma rischiano di rimanere esperienze estemporanee, legate al tempo del finanziamento, se non diventano una dimensione strutturale dei programmi di rigenerazione urbana e di riqualificazione delle periferie. E la compartecipazione dei privati deve essere sollecitata non solo per la parte edilizia, ma anche per quella sociale, tanto più se si tratta di soggetti che operano in quei territori.

Proprio le esperienze italiane e straniere di lavoro nelle aree urbane degradate segnalano anche un altro nodo cruciale dei progetti di riqualificazione urbana e di politiche abitative per i gruppi più svantaggiati: non si può più procedere, come è stato fatto in passato, con la costruzione massiccia di abitazioni spesso di bassa qualità che consumano territorio mentre creano ghetti. Occorrerebbe, invece, nel medio-lungo periodo “smontare” questi agglomerati, riducendone, non aumentandone, l’intensità abitativa, utilizzando anche altre aree ed edifici dismessi per insediamenti più piccoli. Ciò ridurrebbe il rischio che i sociologi chiamano degli “effetti del vicinato”: del vivere, andare a scuola, frequentare solo persone in condizioni di svantaggio, con un impoverimento del capitale sociale e quindi anche delle opportunità.

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Il Punto

  1. Savino

    Mi faccia dire, Professoressa, che nell’Italia di oggi c’è anche un assurdo atteggiamento restio all’agglomerato urbano di tipo metropolitano. Sembra che ognuno voglia vivere nel proprio mulino bianco e a distanza siderale dai vicini. Trovo assolutamente errata l’esaltazione dei piccoli borghi che viene fatta molto spesso, anche perchè sussistono notevoli difficoltà finanziarie e logistiche per fornire tutti i servizi pubblici e di prossimità. Certamente, non ci sono state per almeno 40 anni politiche dello Stato sulla casa (anzi, ora si disincentivano anche affitti regolari con l’innalzamento della cedolare secca), ma altrettanto da verificare è il fenomeno tutto popolare di estranearsi dai contesti urbani.

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