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Italia in ritardo nelle politiche attive

L’Italia spende in politiche attive meno di quanto spenda per quelle passive. Invece un sistema efficace di flexicurity richiede investimenti nei servizi per l’impiego e nella formazione. E con programmi specifici per le categorie più svantaggiate.

Mercato del lavoro ancora segmentato

L’eredità della grande recessione del decennio scorso sembra ancora condizionare profondamente la politica economica e sociale, incapace di riorientarsi verso una strategia di crescita soddisfacente. I recenti dati che vedono il tasso di occupazione su livelli che non si toccavano dal 2012 non devono trarre in inganno. Il mercato del lavoro italiano registra ancora una profonda segmentazione che colpisce soprattutto donne, giovani e disoccupati di lungo periodo.

Il tasso di partecipazione delle donne tra 15 e 64 anni si attestava al 56 per cento nel 2017, quasi 20 punti percentuali al di sotto di quello degli uomini. Il tasso di disoccupazione tra i 15 e i 24 anni era al 43 per cento nel suo massimo nel 2014. La situazione del mercato del lavoro giovanile è migliorata solo leggermente durante la ripresa. Nel 2017, ogni terza persona economicamente attiva di età compresa tra 15 e 24 anni era disoccupata (rispetto all’ottava nell’area Ocse) e più di uno su quattro giovani di età compresa tra 20 e 24 anni non era occupato, in istruzione o in formazione (Neet, rispetto a uno su sei nell’Ocse).

Un panorama così complesso ha fatto sì che il sistema italiano di politiche attive del lavoro attirasse l’attenzione dell’Ocse, facendone uno dei paesi appartenenti alla serie “Connecting People with Jobs”. Il titolo del rapporto – “Strenghtening Active Labour Market Policies in Italy” – lascia ben intendere quale sia la lacuna principale del sistema italiano su cui si concentrano le raccomandazioni dei ricercatori Ocse.

Già con la legge Fornero, ma ancora di più con il Jobs act si è creato un sistema abbastanza soddisfacente di sostegno passivo al reddito di chi perde lavoro, anche i temporanei, mentre il reddito di inclusione assicurava un reddito di cittadinanza ancorché esiguo e a una platea insufficiente a chi il lavoro non lo aveva mai avuto.

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L’uscita del rapporto Ocse coincide temporalmente con l’avvio del reddito di cittadinanza, che si propone di superare entrambi i principali punti scoperti del sistema: primo, fornire un reddito di base più cospicuo, fino alla soglia di povertà, a un numero più ampio di persone; secondo, almeno in linea di principio, fornire politiche attive del lavoro a chi gode del reddito per favorirne l’occupabilità. Già la legge di bilancio del 2019 stanziava finanziamenti mai visti prima per questo settore.

Finora, infatti, l’Italia si è distinta per livelli di spesa in politiche attive sempre inferiori alla media Ocse e, soprattutto, inferiori alla spesa in politiche passive (figure 1 e 2).

Figura 1 – Spesa pubblica su misure di politiche attive e passive; Italia a confronto con la media Ocse, % di Pil

Fonte: OECD/Eurostat Labour Market Programme Database.

Figura 2 – Spesa pubblica in misure di politica attiva e passiva nei paesi Ocse, % del Pil, media 2010-2015

Nota: OECD/Eurostat Labour Market Programme Database

I limiti dell’approccio italiano alla flexicurity

Quello che le due figure non dicono è che le politiche passive si concentrano di più su interventi di tipo assicurativo. Il Jobs act ha provveduto ad armonizzare i sussidi, ma ciò che ancora difetta nelle politiche passive italiane è un sistema con prova dei mezzi su base assistenziale. Lacuna che prima il reddito di inclusione e, in maniera decisamente più marcata, il reddito di cittadinanza cercano faticosamente di colmare.

Purtroppo, la riforma delle politiche attive continua a porsi nel quadro di una revisione delle politiche passive. Già la legge Fornero e il Jobs act muovevano dallo stesso principio: riorganizzazione di sussidi che richiede contestuale rafforzamento delle politiche attive. Il limite dell’approccio è guardare ancora a un concetto di attivazione in cui si fa affidamento su incentivi e sanzioni finalizzati a condizionare il beneficiario di sussidi alla ricerca attiva di lavoro.

L’aspirazione più volte dichiarata è quella di costruire un sistema di flexicurity, che tanto successo ha riscosso nell’Europa settentrionale. Ma tali modelli richiedono di puntare maggiormente sull’aumento dell’occupabilità dei soggetti, su una formazione orientata al reinserimento lavorativo che vada al di là della semplice condizionalità dei sussidi. Per un sistema efficace di flexicurity, però, occorrono investimenti nel settore dei servizi per l’impiego e di formazione professionale maggiori di quelli che i nostri politici sono stati disposti a fare, preferendo spesso misure che richiedono minori esborsi e possono dare ritorni più immediati, ma slegati da capitale umano e qualità dell’occupazione.

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Occorre invece programmare gli interventi di politica attiva anche prescindendo da una contestuale riorganizzazione delle politiche passive. Ciò si può realizzare specificando la componente formativa degli interventi, soprattutto stabilendo programmi specifici per le categorie più svantaggiate. La spesa in politiche attive deve raggiungere almeno quella attuale in politiche passive, come accade nei paesi che sono un modello di flexicurity.

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  1. Savino

    Italiani troppo ancorati a vecchie dinamiche che non torneranno mai più, alla fine sperano sempre di risolverla col solito assistenzialismo, ma, al mondo d’oggi, non funziona più. Lo sanno bene le nuove generazioni, meglio prenderne atto e coscienza, meglio cominciare a prendere di petto i problemi.

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