Il governo prepara un decreto per restringere ancora il riconoscimento del diritto d’asilo. Avrà ben pochi effetti. E in ogni caso, l’Italia ha interesse all’arrivo di migranti, perché li richiede il mercato del lavoro e per motivi demografici.
I ministri degli Esteri e della Giustizia – Luigi Di Maio e Alfonso Bonafede – hanno annunciato la definizione di un decreto con il quale sarà istituita una lista di 13 paesi d’origine da considerarsi “sicuri” ai fini del riconoscimento del diritto d’asilo. Si tratta di Marocco, Algeria, Tunisia, Albania, Bosnia, Capo Verde, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro, Senegal, Serbia e Ucraina.
Tredici paesi “sicuri”?
La normativa Ue permette infatti allo stato di esaminare la domanda d’asilo presentata da uno straniero appartenente a uno dei paesi definiti sicuri con una procedura accelerata. In particolare, la presentazione di un ricorso contro il rigetto della domanda non sospende l’allontanamento dello straniero, a meno che così decida il giudice competente. La direttiva 2013/32/UE, tuttavia, non permette di applicare la procedura se il richiedente asilo ha prospettato gravi motivi che inducono a considerare non sicuro il paese d’origine, nelle circostanze specifiche in cui il richiedente stesso si trova. Un esempio? Nella lista dei paesi che il governo vorrebbe definire sicuri si trovano Marocco, Senegal, Ghana e Albania; diverse sentenze (per esempio, Cassazione n. 2907/2008, Tribunale Catanzaro, Tribunale Genova, Tribunale Trieste, Cassazione n. 15981/2012, Tribunale Venezia) hanno però riconosciuto lo status di rifugiato a richiedenti asilo omosessuali, sulla base del rischio di seria compressione dei loro diritti in questi paesi. E non è necessario che la persecuzione provenga da agenti statali, è sufficiente che le autorità non ne sanzionino adeguatamente gli autori.
Il decreto inciderà così solo sul trattamento da riservare ai richiedenti asilo che non alleghino alcun elemento attinente al rischio di subire persecuzioni se rimpatriati. Ma, in questo caso, la procedura accelerata potrebbe essere adottata, già oggi, anche per stranieri originari di paesi non sicuri (articolo 28-bis Dlgs 25/2008). Difficilmente potrà avere effetti per le domande corredate da indicazioni puntuali, ancorché non sorrette da prove solide. Resta inalterato, infatti, in base alla direttiva 2011/95/UE, l’obbligo dello stato italiano di esaminare tutti gli elementi significativi della domanda, in cooperazione col richiedente. L’obbligo è stato sancito dalla legge (articolo 27 comma 1-bis Dlgs 25/2008), coerentemente con l’interpretazione datane dalle Sezioni unite della Cassazione, imponendo che l’autorità decidente acquisisca, anche d’ufficio, le informazioni che ritiene necessarie a integrazione del quadro probatorio prospettato dal richiedente. Se il decreto dovesse modificare questa disposizione si porrebbe in contrasto insanabile con la normativa Ue.
Nessun effetto, naturalmente, il decreto potrà avere sulla durata delle procedure relative a richiedenti originari di altri paesi (nel 2019, due terzi del totale; negli anni 2011-2018, oltre l’80 per cento secondo i dati del ministero dell’Interno). Né è prevedibile che l’abbreviazione delle procedure possa facilitare l’allontanamento di coloro che vedono definitivamente respinta la domanda d’asilo. Il rimpatrio richiede infatti che lo straniero resti reperibile (e sarà tanto più improbabile quanto meno fondata è la domanda d’asilo) e che il paese d’appartenenza collabori nel riammetterlo sul proprio territorio (cosa non ovvia se lo straniero è arrivato privo di passaporto).
L’interesse dell’Italia
Al disagio che alcuni provano nell’osservare quanto sia arduo gestire, sotto questo aspetto, il fenomeno migratorio si può rispondere in due modi. Il primo, che piace a molti, è quello della escalation repressiva: impedire che gli stranieri partano alla volta dell’Italia (Marco Minniti); se partono ugualmente, impedire che arrivino (Matteo Salvini); se arrivano comunque, sparare alle gambe (Donald Trump).
Il secondo, più meditato, parte dal chiedersi se il nostro paese abbia un interesse all’arrivo di migranti. Ne ha – a mio parere – almeno sotto due aspetti: il mercato del lavoro e il problema demografico.
Il mercato del lavoro italiano necessita di manodopera straniera in molti settori: lavoro di cura, agricoltura, edilizia, ristorazione, settore alberghiero e altri ancora. Oltre a colmare carenze dell’offerta, gli stranieri svolgono un ruolo complementare rispetto ai lavoratori italiani, consentendo, per esempio, di liberare da una parte dei carichi familiari molte lavoratrici nazionali. L’ultimo decreto-flussi per l’ammissione di lavoratori non stagionali, però, è stato pubblicato alla fine del 2010. Se ne venissero adottati ogni anno, con la previsione di quote di ingresso congrue, non vi sarebbe alcuna necessità, per i cosiddetti migranti economici, di mimetizzarsi nel flusso di profughi effettivamente bisognosi di asilo.
L’aspetto demografico non è meno importante. Dalla fine del 2010 a fine del 2018 i residenti italiani sono passati da 56.056.125 a 55.104.043, con un calo di 952.082 unità. La diminuzione di popolazione è stata attenuata grazie all’aumento, da 4.570.317 a 5.255.503, dei residenti di altra nazionalità. Complessivamente, si sono perse, comunque, 266.896 unità (dati Istat). Nello stesso periodo, i richiedenti asilo che hanno visto respinta la loro domanda sono stati 223.579 (l’80 per cento dei quali al di sotto dei 35 anni dai dati del ministero dell’Interno). Se lo stato avesse accordato loro un permesso di soggiorno, senza perdere tempo a esaminarne le domande, limitandosi ad accertare l’assenza di motivi ostativi legati alla sicurezza pubblica, oggi soffriremmo di una perdita di popolazione di sole 43mila unità.
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