Boris Johnson chiude il Parlamento e cancella ogni opposizione interna all’uscita del Regno Unito dall’Europa. Dopo la Brexit senza accordo, andrà alle elezioni. Che potrebbero garantirgli cinque anni di governo stabile. Con gravi conseguenze per tutti.

Boris solo al comando

Come previsto, Boris Johnson è stato incoronato leader dei tory e incaricato dalla regina di guidare il governo. La consuetudine non richiede un voto di fiducia, che quindi si tiene solo se il capo dell’opposizione, il leader laburista Jeremy Corbyn, ne fa richiesta formale. Per evitare che questa eventualità possa di per sé allungare i tempi della Brexit, Johnson ha ritardato la convocazione del Parlamento di un paio di settimane, citando l’urgenza di lavorare per risanare la crisi economica del paese, ma preoccupandosi al tempo stesso della resistenza fisica dei parlamentari, che, dice, saranno sfiniti dal più lungo periodo di riunioni in 400 anni.

In realtà, come ha sbottato il ministro della Difesa, il ritardo – di per sé né incostituzionale né senza precedenti – è una semplice melina per sprecare il tempo a disposizione della coalizione pro-europea per provocare una crisi di governo e costringere i tory a elezioni politiche prima del fischio finale. La legge (un’altra delle idee geniali di David Cameron) impone che nel caso di un voto di sfiducia in Parlamento, il premier possa chiedere alla regina di indire elezioni, o suggerirle il nome di un candidato che ritiene possa formare un governo, o cercare di rimanere in carica. Se entro 15 giorni la crisi non è risolta, si va al voto. Che però richiede almeno cinque settimane per la presentazione delle liste e la campagna elettorale.

Anche senza la sfacciata scusa addotta da Johnson, una decisione simile avrebbe comunque suscitato violente reazioni da entrambi i lati, radicalizzando ancora la già straordinariamente dura divisione del paese. Il primo ministro sa benissimo che qualunque deviazione dalla più sprezzante versione della Brexit permetterà al Telegraph e all’Express, i potenti megafoni dei più inflessibili faragisti, di strillare ululanti al tradimento della scelta del paese. Entrambe le parti parlano di colpo di stato e di attacchi alla democrazia, definita dai brexitisti “volontà del popolo”, dai pro-europei “volontà del parlamento”.

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Prima la Brexit, poi le elezioni

La decisione di Johnson di stracciare patti, accordi e convenzioni traccia una terrificante analogia con la temeraria decisione di Hitler di rimilitarizzare la Renania il 7 marzo 1936. I colleghi di partito del primo ministro, che avevano espresso orrore alla sola idea di sospendere il Parlamento, sono ora solidi e compatti a favore. Ogni dubbio interno è punito senza un momento di indecisione: il capo di gabinetto dirige il governo con mano ferrea e spietata. Licenziata la portavoce del ministro dell’Economia, il quale, se guaisce, lo fa in privato: in pubblico, da fedele cagnolino, seguita a ubbidire Johnson con occhi adoranti; i deputati tory perderanno il posto se votano contro il governo, alla faccia della democrazia locale, fondamento dei tory dalla fondazione. L’opposizione è irrimediabilmente divisa e senza piani convincenti. Quando è stata ventilata la possibilità di un governo di unità nazionale guidato dal decano Kenneth Clarke, ministro fin dal primo governo Thatcher – una possibilità comunque solo teorica dato che il primo ministro uscente non la suggerirebbe mai alla regina – il leader laburista ha subito rifiutato, precisando che solo lui potrebbe guidare quel governo, ben sapendo che i ribelli tory necessari alla fiducia non sarebbero mai disposti a sostenerlo nemmeno con un’astensione. Gli appelli a chi ha il potere formale (la regina), o effettivo (i dirigenti dei ministeri) cadono su un terreno sterile. Entrambe le istituzioni hanno il rispetto del pubblico solo ed esclusivamente per la loro assoluta neutralità: la mera possibilità che rifiutino di ubbidire agli eletti rappresentanti del popolo ne segnerebbe la fine immediata.

Il piano di Johnson è tanto semplice quanto audace: uscire dalla Ue il 31 ottobre con o senza un trattato. Le opposizioni, ormai disperate, hanno preparato una proposta di legge che obbligherebbe il governo a (i) far approvare dal Parlamento un accordo con la Ue, o (ii) far approvare dal Parlamento l’accordo per una Brexit senza deal, oppure (iii) chiedere un’altra estensione alla Ue. Per tutta risposta, Johnson ha dichiarato di non avere nessuna intenzione di ubbidire a una tale legge, se approvata dal Parlamento. Pur non avendolo affermato esplicitamente, l’unica scappatoia è quella di indire elezioni anticipate. La data probabile sembra essere il 14 ottobre. In teoria, un nuovo governo potrebbe chiedere un rinvio per un secondo referendum (o revocare unilateralmente l’articolo 50). Assumendo una posizione così estrema, Johnson spera di andare alle urne avendo ottenuto in due mesi, senza compromessi e umiliazioni, ciò che i suoi predecessori non hanno ottenuto in tre anni. Così minimizzerebbe il danno elettorale che ai tory potrebbe infliggere il Brexit party, il cui successo dipende strettamente dall’orientamento di quel 40 per cento della popolazione decisamente pro-Brexit. Il Labour è debolissimo, con meno di un quarto dei consensi, e il fronte anti-tory è diviso quasi perfettamente a metà, una spaccatura duramente punitiva in un sistema elettorale con collegi uninominali. I danni immediati causati dalla Brexit (supermercati vuoti, farmaci esauriti, patente non valida in Europa, ritardi nei pagamenti internazionali, camion in coda nei porti, enormi roghi di pecore invendute e macellate) non si manifesteranno prima del voto, e Johnson spera di ottenere una forte maggioranza (considerato anche il suo piano di licenziare gli irriducibili ribelli tory). Spera così di poter contare su cinque anni di governo stabile, in cui riaggiustare il paese alla nuova situazione internazionale e mitigare i danni di lungo termine, i licenziamenti e i fallimenti di migliaia di piccole e medie imprese.

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Per la prima volta dal referendum del giugno 2016, penso ora che il Regno Unito uscirà davvero dalla Ue. Per le conseguenze, torna di attualità la previsione fantapolitica che scrissi allora.

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