Le conseguenze storicamente determinate dei piani di consolidamento fiscale su crescita e diseguaglianza non bastano a guidare l’azione politica. In una democrazia, il successo delle misure dipende probabilmente dal fatto che siano socialmente condivise.
Austerità e crescita
In Austerità (Rizzoli, 2019), Alberto Alesina, Carlo Favero e Francesco Giavazzi analizzano 170 piani di riduzione del debito pubblico adottati da 16 paesi Ocse tra il 1981 e il 2014, distinguendo tra quelli basati prevalentemente sulla riduzione di spesa e quelli basati prevalentemente sull’aumento di imposte.
Gli autori si chiedono come sia possibile minimizzare le conseguenze indesiderabili del consolidamento. L’indagine suggerisce in modo esaustivo che i piani basati prevalentemente sulla riduzione di spesa comportano un minor rallentamento della crescita e una più efficace stabilizzazione del rapporto debito/Pil rispetto quelli basati prevalentemente sull’aumento di imposte.
Ciò accadrebbe perché la tassazione ha effetti negativi sulla distribuzione efficiente delle risorse, mentre i tagli di spesa, segnalando la riduzione del peso futuro delle imposte, stimolano la fiducia.
Fin qui, tutto bene. Ma possiamo davvero ritenere che questi pur importanti risultati possano esaurire il dibattito sul contenimento dei “danni collaterali” di un consolidamento fiscale? Possiamo ritenere che la crescita sia una misura esaustiva o anche soltanto sufficientemente rappresentativa dei costi del consolidamento?
Gli effetti del consolidamento fiscale
Una vasta letteratura si è occupata della relazione tra consolidamento fiscale e diseguaglianza. Secondo Laurence Ball e altri (2013) e Davide Furceri e altri (2015) l’austerità è generalmente coincisa con un aumento della diseguaglianza. Jaejoon Woo e altri (2013) mostrano che piani basati sulla riduzione di spesa sono associati a incrementi della diseguaglianza più marcati rispetto a piani che si fondano sull’aumento delle entrate. Luca Agnello e Ricardo Sousa (2014) ottengono risultati simili. La questione non sembra di poco conto. Secondo Olivier Blanchard, l’aumento della diseguaglianza è alla radice dei fenomeni di instabilità politica e sociale di questi anni.
Un altro tema sorprendentemente escluso da Alesina, Favero e Giavazzi riguarda le conseguenze sul benessere individuale di riduzioni di spesa pubblica, che si determinano anche prescindendo da considerazioni relative agli effetti sulla diseguaglianza (Paul Samuelson, 1954). Cosa assicura che operare prevalentemente sul lato della spesa non comporti una eccessiva perdita di benessere pur in presenza di minori riduzioni di crescita?
In uno studio con Roberta Cardani e Lorenzo Menna ci siamo posti il problema del disegno di un piano ottimale di consolidamento fiscale in un contesto in cui le imposte sui redditi sono distorsive, la spesa pubblica contribuisce al benessere individuale e la ricchezza finanziaria è concentrata nelle mani della parte più ricca della popolazione.
I risultati potrebbero sembrare sorprendenti. Anche in assenza di conflitti distributivi, il peso del consolidamento ricade per circa il 75 per cento su incrementi temporanei di imposte. La polarizzazione nella distribuzione della ricchezza induce poi a visioni diametralmente opposte circa il contributo relativo delle imposte su capitale e lavoro durante il consolidamento.
I due dilemmi della politica
Abbiamo dunque un’idea abbastanza chiara delle conseguenze storicamente determinate dei piani di consolidamento fiscale sulla crescita e sulla diseguaglianza, tuttavia ciò non sembra sufficiente per guidare l’azione politica, che si trova a fronteggiare almeno due dilemmi.
Il primo riguarda l’efficienza allocativa delle imposte e il benessere derivato dalle spese pubbliche. Il secondo concerne l’alternativa tra equità ed efficienza. Molto rimane da fare, anche per gli economisti. A questo proposito sembra opportuno segnalare gli sforzi dell’Ocse, volti a delineare piani di riduzione del debito che siano “compatibili con crescita ed equità” (“growth and equity friendly”). Questo tipo di approccio, invece di enfatizzare la contrapposizione tra piani basati sul taglio alla spesa o sull’aumento delle entrate, sottolinea l’importanza di individuare componenti della spesa e specifiche imposte il cui utilizzo possa risultare meno costoso.
Le implicazioni dell’analisi possono risultare sorprendenti. Innanzitutto, si raccomanda di limitare l’utilizzo di strumenti che possono ridurre il potenziale produttivo. Tra questi, oltre alle imposte sui redditi, si segnalano spese in educazione, sanità e infrastrutture, a meno che non ci siano evidenti spazi per un recupero di efficienza. Per converso, imposte sul patrimonio immobiliare e sui consumi sembrano avere modesti effetti distorsivi. L’obiettivo di limitare un aumento della diseguaglianza indurrebbe invece cautela sia nell’incremento delle imposte sui consumi sia nella riduzione dei trasferimenti, dal momento che variazioni nel peso di queste voci del bilancio pubblico hanno effetti soprattutto sulle fasce più deboli della popolazione. L’incremento delle imposte sugli immobili di pregio, di successione e sui guadagni in conto capitale può migliorare i saldi di finanza pubblica e al tempo stesso limitare la diseguaglianza.
Questi semplici principi dovrebbero guidare la definizione di piani socialmente condivisi. In una società democratica è plausibile che il successo dei piani di consolidamento fiscale dipenda fondamentalmente da un consenso collettivo ampio e prolungato nel tempo.
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